Con sentenza n. 139/2019 la Corte Costituzionale si è espressa sul giudizio di legittimità dell’art. 96, terzo comma, del Codice di Procedura Civile, promosso dal Tribunale di Verona.
Il giudice a quo, trovandosi a dirimere una «inconsistente» controversia in materia di restituzione di somme percepite a titolo di interessi bancari, si è infatti interrogato circa la natura e la compatibilità con il dettato costituzionale del predetto articolo, il quale, come noto, stabilisce che «quando pronuncia sulle spese ai sensi dell’articolo 91, il giudice, anche d’ufficio, può altresì condannare la parte soccombente al pagamento, a favore della controparte, di una somma equitativamente determinata».
A parere del giudice rimettente, l’illegittimità costituzionale dell’art. 96, c. 3, c.p.c. sarebbe da ritrovare in ciò, che esso non prevede entità minima ed entità massima della somma equitativamente determinabile. Tale elemento – attesa la natura sanzionatoria dell’obbligazione pecuniaria in parola – contrasterebbe con la necessaria puntualizzazione dei limiti quantitativi delle condanne pecuniarie irrogabili.
Da un lato, perciò, l’assenza di prevedibilità siffatta farebbe venir meno il principio di legalità (art. 25 Cost.), mentre dall’altro il potere eccessivamente discrezionale così concesso al giudice violerebbe la riserva di legge in materia di imposizioni personali o patrimoniali (art. 23 Cost.).
La Consulta ha tenuto distinti i due profili di censura. Difatti, in relazione al principio di legalità – principio che l’art. 25 funzionalizza alle sanzioni in senso stretto – la questione di legittimità costituzionale è risultata inammissibile, in quanto l’obbligazione pecuniaria di cui alla disposizione censurata, pur avendo finalità mista punitivo/indennitaria, è risultata pur sempre una semplice prestazione patrimoniale imposta per legge. Viceversa, la medesima questione ha assunto rilievo in relazione all’altro parametro invocato dal giudice rimettente, cioè la riserva (relativa) di legge dell’art. 23.
Così ristretti i confini della questione, la Corte ha assunto la presunta illegittimità costituzionale a presupposto logico-giuridico per chiarire, in primo luogo, i rapporti reciproci esistenti tra la pronuncia sulle spese di cui all’art. 96, c. 1, c.p.c. (in termini di risarcimento del danno per ‘lite temeraria’) e la pronuncia sulle spese di cui all’art. 96, c. 3, c.p.c. (in termini di ‘soccombenza addizionale’).
Altro tema caro alla Corte, e affrontato in questa sentenza, è poi quello dei limiti costituzionali della riserva di legge, nonché quelli relativi alla valutazione equitativa da parte del giudice: il rapporto tra i due istituti, infatti, è dirimente per la risoluzione dei dubbi del giudice a quo.
Partendo dal primo dei due problemi, la Consulta ha inscritto la propria pronuncia nel contesto normativo del «regime della soccombenza della parte nella lite civile». Sul tema, la Corte ha sottolineato che il tradizionale doppio binario codicistico, basato su rimborso ordinario delle spese di lite e rimborso aggravato in caso di lite temeraria, aveva subito un primo e inedito ampliamento nel 2006, con l’introduzione di un quarto comma all’art. 385 c.p.c., vale a dire l’antecedente storico del predetto art. 96, c. 3.
La ratio delle due disposizioni, quella abrogata (art. 385, c. 4) e quella attuale (art. 96, c. 3), è comunque la medesima: «una sanzione per l’abuso del processo a opera della parte soccombente mediante la condanna di quest’ultima, anche d’ufficio, al pagamento di tale somma in favore della controparte, oltre al (o indipendentemente dal) risarcimento del danno per lite temeraria».
Per quanto attiene invece al rapporto tra il risarcimento del danno per lite temeraria (art. 96, c. 1) e l’istituto della sanzione aggiuntiva, nelle due forme succedutesi nel tempo, esso si sostanzia in un rapporto di addizionalità. La somma determinata equitativamente, perciò, non va confusa con il risarcimento per lite temeraria, ma era e resta una sanzione aggiuntiva.
La differenza tra il vecchio e il nuovo istituto, tuttavia, si ravvede nel senso che, nella formulazione di quello attuale, «il criterio di quantificazione della somma, oggetto della possibile condanna, è rimasto solo equitativo, non essendo più previsto il limite del doppio dei massimi tariffari».
Chiarito il contesto normativo, la Consulta ha poi affrontato la relazione esistente tra riserva relativa di legge e potere equitativo del giudice, propedeutica alla valutazione del vero thema decidendum, e cioè la legittimità dell’art. 96, c. 3, c.p.c.
Sul punto, il ragionamento è del seguente tenore: il compito di quantificare su base equitativa la somma da porre a carico della parte soccombente riposa sull’affidamento che il Legislatore, «esercitando la sua discrezionalità particolarmente ampia nella conformazione degli istituti processuali», pone sulla giurisprudenza, la quale, a sua volta, «nell’attività maieutica di formazione del diritto vivente» può dare concretezza al precetto espresso dalla legge.
Tale attività maieutica (della Cassazione) si è espressa sulla materia in oggetto nel senso di ancorare il rinvio all’equità del terzo comma al criterio di proporzionalità secondo le tariffe forensi, rapportandola così «alla misura dei compensi liquidabili in relazione al valore della causa».
In questo modo, ha concluso la Corte, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale, la valutazione equitativa dell’art. 96, c. 3, c.p.c., non è mera astrazione o volontà capricciosa e insondabile del giudice, ma aderenza a un percorso incanalato dall’ordinamento su un binario preciso; risulta pertanto rispettata la base legale del precetto, in ossequio alla riserva relativa di legge dell’art. 23 Cost.
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