1. INTRODUZIONE: ADVERTISING E SOCIAL MEDIA. 2. SOCIAL MEDIA E PUBBLICITÀ OCCULTA: L’INFLUENCER MARKETING. 3. CENNI PRELIMINARI SULLE BEST PRACTICES. 4. LE BEST PRACTICES PER GLI INFLUENCER: TRASPARENZA E HASHTAG. 5. LE BEST PRACTICES PER LE AZIENDE: LINEE GUIDA AZIENDALI E CLAUSOLE CONTRATTUALI STANDARD. 6. ALCUNE CONCLUSIONI.
1. INTRODUZIONE: ADVERTISING E SOCIAL MEDIA.
Tra le molte anime che caratterizzano i social media, quella commerciale occupa ormai da diverso tempo un posto di rilievo. I social media sono divenuti non soltanto luoghi di compravendite, talvolta molto vicini ai siti di e-commerce, ma soprattutto il fulcro (o, almeno, uno dei principali motori) dell’industria pubblicitaria.
Che si pensi alle inserzioni di Facebook, alle Instagram Stories sponsorizzate, o ancora a TikTok For Business, il ‘social media advertising’ è diventato per le aziende una potente leva di mercato.
Le ragioni sono numerose, e volendo indicarne alcune, è possibile ricordare in primo luogo che i social media hanno ridotto le barriere all’ingresso del tradizionale mercato pubblicitario: per iniziare a promuovere online la propria attività, oggi, bastano uno smartphone e un investimento di pochi Euro.
In secondo luogo, tali piattaforme, disintermediando il – o, per meglio dire, creando nuove forme di intermediazione nel – rapporto tra creatore e fruitore del messaggio pubblicitario, consentono alle aziende di dialogare direttamente con i consumatori, fornendo inoltre tutta una serie di strumenti (le cd. ‘advertising metrics’) utili a
monitorare ed eventualmente a correggere in tempo reale le campagne pubblicitarie.
Inoltre, le piattaforme offrono una pluralità di nuovi metodi creativi, utili non soltanto per fare pubblicità in senso stretto, ma anche per aumentare l’engagement (interattività, elementi ludici, captions, creazione di eventi o community) e, soprattutto, per far diventare virale un contenuto, a beneficio del prodotto o del servizio ad esso associato.
Non bisogna infine dimenticare che il numero di utenti dei social media è in costante crescita, e trascorre online una quantità di tempo sempre maggiore [1]. In altre parole, è sui social che un’azienda può facilmente trovare i propri clienti e raggiungere, grazie alla targetizzazionedei contenuti, l’utente giusto con il messaggio giusto.
È questo un dato presente ormai nell’esperienza comune: internet in generale, e le piattaforme in particolare, hanno introdotto un modello pubblicitario nuovo, in cui l’advertisingraggiunge automaticamente, e in maniera multiforme (quasi tentacolare?), il feed di quegli utenti che l’algoritmo ritiene potenzialmente più interessati.
Siamo molto vicini, insomma, allo scenario efficacemente descritto anni fa dal programmatore Dave Winer con le seguenti parole: “Advertising will get more and more targeted until it disappears, because perfectly targeted advertising is just information”.
2. SOCIAL MEDIA E PUBBLICITÀ OCCULTA: L’INFLUENCER MARKETING.
Sui social media l’informazione pubblicitaria non è sempre veicolata con chiarezza. Accanto all’advertising ‘palese’, per tale intendendosi quello in cui l’intento commerciale è reso noto all’utente/consumatore, si sono diffuse nel tempo forme di pubblicità occulta, in cui l’apparente neutralità del contenuto nasconde invece un messaggio prettamente commerciale.
Un esempio di ciò è l’influencer marketing, una pratica che consiste, come spiegato dall’AGCM, “nella diffusione su blog, vlog e social network (come Facebook, Instagram, Twitter, Youtube, Snapchat, Myspace) di foto, video e commenti da parte di “bloggers” e “influencers” (ovvero di personaggi di riferimento del mondo online, con un numero elevato di followers), che mostrano sostegno o approvazione (endorsement) per determinati brand, generando un effetto pubblicitario, ma senza palesare in modo chiaro e inequivocabile ai consumatori la finalità pubblicitaria della comunicazione” [2].
Gli influencer [3], come noto, sono personaggi ‘pubblici’, molto seguiti sui social (nell’ordine di milioni, o perlomeno migliaia, di follower) [4], la cui opinione è peraltro generalmente tenuta in conto dai propri follower come frutto di un’esperienza personale, e non di un accordo commerciale [5].
Partendo da queste premesse, se è vero che il messaggio pubblicitario perfettamente targetizzato può diventare per l’utente un’informazione (utile), probabilmente è vero anche che quello stesso messaggio, se diffuso non da un’azienda, ma da una persona che l’utente segue abitualmente (e di cui si fida [6]), potrà rappresentare addirittura un’informazione credibile [7].
Oltre a questo ruolo chiave legato alla personalità dell’influencer, gli altri elementi tipici del fenomeno in commento, come sintetizzati dall’AGCM, sono l’endorsement al brand e l’effetto pubblicitario.
Per quanto riguarda l’endorsement al brand, esso generalmente avviene nella forma di un elogio su base esperienziale a vantaggio del prodotto offerto dall’azienda all’influencer: prodotto che può anche semplicemente apparire ‘di sfuggita’ (ma in maniera studiata) all’interno del contenuto social, sulla scia del product placement televisivo.
Per quanto riguarda invece l’effetto pubblicitario, esso deriva dall’unione dei due elementi già visti: l’apparizione del brand nel post dell’influencer – facendo leva sulla fiducia che i followerripongono nell’influencer stesso, o quantomeno sulla sua popolarità – fa guadagnare notorietà all’azienda presso un dato pubblico, senza però che l’intento pubblicitario sottostante sia palesato al consumatore all’interno della comunicazione [8]. Anzi, spesso viene fornita al pubblico l’impressione che il brand sia ‘casualmente’ presente nella quotidianità dell’influencer. [9]
Tali forme di pubblicità occulta, come rilevato in più occasioni dall’AGCM, risultano particolarmente insidiose. E questo in quanto l’influencer marketing si svolge all’interno di un contesto (la relazione ‘spontanea’ tra influencer e follower) che priva il consumatore delle naturali difese che invece lo accompagnano quando il contenuto ha un intento pubblicitario o commerciale dichiarato. [10]
Inoltre, le sponsorizzazioni occulte – assecondando le già ricordate peculiarità dei social media – si caratterizzano per la loro eterogeneità con riguardo soprattutto alle varie forme in cui il brand può apparire nei post: ad esempio, il prodotto può essere presente nell’immagine o nel video, può essere citato nei commenti, anche sotto forma di hashtag, o ancora può essere menzionato a voce dall’influencer, o una combinazione delle precedenti.
3. CENNI PRELIMINARI SULLE BEST PRACTICES.
Al fine di provare a sintetizzare alcune linee di indirizzo per la pratica commerciale in questione, anche vista la sua scarna regolamentazione, una preziosa fonte di indicazioni risiede negli interventi di AGCM, consistiti dapprima in alcune moral suasion e, in seguito, in veri e propri provvedimenti volti a contrastare le forme abusive di influencer marketing.
D’altronde, come già rilevato, il fenomeno chiama in gioco importanti valori in termini di trasparenza dello scopo pubblicitario e, dunque, di consapevolezza da parte degli utenti/consumatori. Non a caso, nell’avvio di un’istruttoria per pubblicità occulta recentemente conclusasi con impegni, AGCM ha ricordato che “la pubblicità deve essere chiaramente riconoscibile” e che il divieto di pubblicità occulta “ha portata generale e deve perciò essere applicato anche alle comunicazioni diffuse dagli influencer tramite social network”.
Ed è proprio dai vari provvedimenti dell’Autorità e dagli impegni assunti dai soggetti coinvolti che è possibile ricavare alcune best practices di un settore che, pur essendo in continuo sviluppo, inizia ugualmente a trovare un preciso inquadramento.
Due ulteriori osservazioni, prima di addentrarsi in un esame più sistematico delle suddette best practices. La prima: esse non coinvolgono soltanto gli influencer, ma anche (e soprattutto) le aziende titolari dei brand sponsorizzati. La seconda: la ‘gestione’ dell’influencer marketing coinvolge anche le stesse piattaforme di social media, le quali difatti stanno mettendo a disposizione dei creator e delle aziende strumenti tecnici sempre più efficaci al fine di evidenziare la natura pubblicitaria di un contenuto. [11]
4. LE BEST PRACTICES PER GLI INFLUENCER: TRASPARENZA E HASHTAG.
Per quanto attiene agli influencer, una prima indicazione di massima è contenuta proprio nelle già richiamate moral suasion dell’AGCM, le quali invitano gli operatori a conformarsi alle prescrizioni del Codice del Consumo fornendo agli utenti/consumatori adeguate indicazioni circa la natura pubblicitaria del messaggio.
Gli influencer, afferma l’Antitrust, non possono “lasciar credere di agire in modo spontaneo e disinteressato se, in realtà, stanno promuovendo un brand”. E se è vero che l’utilizzo di tagche rimandano al profilo social o al sito del brand già esprimono un effetto pubblicitario, tuttavia ciò di per sé non è sempre sufficiente a palesare la natura commerciale del post alla generalità dei consumatori.
Per l’AGCM gli influencer dovrebbero quindi inserire apposite avvertenze nei contenuti sponsorizzati, ad es. mediante l’utilizzo di hashtag quali #pubblicità, #sponsorizzato, #advertising, #inserzioneapagamento, #prodottofornitoda, #promossoda, #incollaborazione, seguiti dal nome del brand.
Inoltre, le ancor più specifiche best practices desumibili dai provvedimenti esaminano tre fattispecie specifiche.
A. Prodotti omaggio.
La prima è relativa ai prodotti omaggio, cioè a quelle ipotesi in cui l’azienda invii all’influencerun prodotto, ma senza uno specifico obbligo di svolgere attività promozionale. In questo caso, l’influencer dovrebbe inserire negli eventuali post relativi a tale prodotto degli hashtagche rendano evidente agli utenti la circostanza che il prodotto è stato regalato, come #suppliedbybrand, #brandgift, #fornitodabrand o simili.
B. Accordi promozionali.
La seconda fattispecie, invece, riguarda i rapporti di committenza o di collaborazione tra azienda e influencer, cioè i casi in cui vi sia uno specifico accordo promozionale tra la società titolare del brand e l’influencer. Quest’ultimo dovrebbe quindi utilizzare degli hashtag idonei a rivelare al pubblico il rapporto commerciale esistente, come #pubblicitàbrand, #sponsorizzatodabrand, #advertisingbrand, #inserzioneapagamentobrand, #advertising, #ad, #sponsoredby + nome marchio, #pubblicità.
C. Call to action.
La terza fattispecie, infine, riguarda la cosiddetta “call to action”, una strategia promozionale che prevede un’interazione con i follower, generalmente invitati dall’influencer a postare contenuti legati al prodotto o al brand sponsorizzato, con l’aspettativa di guadagnare visibilità, ad es. mediante la ricondivisione, da parte dell’influencer, dei migliori post. In questi casi, l’influencer, oltre a seguire le precedenti indicazioni, dovrebbe anche avvisare i propri follower che non saranno presi in considerazione i post, inviati dai follower stessi, che siano a loro volta privi di sigle come #adv o similari. [12]
5. LE BEST PRACTICES PER LE AZIENDE: LINEE GUIDA AZIENDALI E CLAUSOLE CONTRATTUALI STANDARD.
Anche per le aziende è possibile sintetizzare alcune best practices provenienti dagli impegni assunti dalle società coinvolte nei provvedimenti dell’AGCM.
A. Diffusione di linee guida in tema di influencer marketing.
L’azienda dovrebbe adottare linee guida, nel pieno rispetto dei principi di trasparenza della pubblicità, contenenti le regole cui i ‘propri’ influencer dovrebbero attenersi, potendone anche includere un estratto all’interno dei contratti conclusi tra l’azienda e l’influencer (anche in quelli conclusi attraverso agenzie). Le linee guida dovrebbero contenere, ad es.: 1) indicazioni relative alle modalità e ai disclaimer che gli influencer dovrebbero utilizzare (anche in caso di call to action) per rendere note al pubblico le finalità commerciali dei post, con la possibile previsione contrattuale di misure sanzionatorie nei confronti degli influencerstessi; 2) richiami ai principi cardine della trasparenza pubblicitaria; 3) indicazioni relative ai modelli contrattuali da applicare nei rapporti con gli influencer.
B. Comunicazioni in tema di influencer marketing.
Le figure apicali potrebbero inviare alle funzioni aziendali coinvolte nella gestione dell’influencer marketing una comunicazione formale, raccomandando un rigoroso rispetto della normativa sulle pratiche commerciali scorrette, soprattutto al fine di evitare sponsorizzazioni occulte. Sempre in tema di comunicazioni, stavolta rivolte al pubblico, le aziende dovrebbero chiedere ai follower di usare indicazioni come #adv e #sponsoredby prima del nome del prodotto in caso di call to action promosse direttamente dall’azienda.
C. Inserimento di apposite clausole contrattuali.
L’azienda dovrebbe inserire, nei contratti con gli influencer, clausole standard finalizzate a garantire il rispetto delle linee guida aziendali eventualmente diffuse, o comunque finalizzate all’adozione di tutte le misure necessarie a evitare sponsorizzazioni occulte, con la possibilità di procedimentalizzare questo aspetto del rapporto contrattuale mediante warning formali e applicazione di meccanismi di deterrenza e sanzionatori. Clausole simili – pur con le dovute differenze – possono ipotizzarsi anche nei contratti di co-marketing [13] e di affidamento ad agenzie dell’instaurazione di rapporti contrattuali con gli influencer [14].
6. ALCUNE CONCLUSIONI.
L’influencer marketing rappresenta, sotto una certa prospettiva, nient’altro che una nuova declinazione di un approccio pubblicitario tradizionale: associare l’immagine di un prodotto a quella di un personaggio noto, con tutti i benefit del caso in termini di visibilità.
A differenziare l’influencer marketing, tuttavia, sono le modalità con cui esso si propone al pubblico. Sulle piattaforme, la produzione di post e di altri contenuti avviene infatti senza soluzione di continuità da parte di un enorme numero di utenti – e tra questi, da parte di una vasta schiera di influencer.
Questo rende più sfumati i confini tra ciò che è pubblicità e ciò che invece non lo è, dato che un determinato prodotto può capitare nella quotidianità (e dunque nei post) di un influencersia per sincera passione verso quel prodotto, sia per un invio omaggio da parte dell’azienda, sia ancora per un vero e proprio accordo di collaborazione professionale sottostante.
La narrativa social, in altre parole, registra spesso significative porzioni della vita degli utenti (e degli influencer in particolare) e prosegue senza pause predeterminate, senza intervalli pubblicitari ben delineati e regolamentati come quelli dei media tradizionali. Pertanto, come si è già avuto modo di osservare, da un lato l’advertising può non essere sempre immediatamente riconoscibile, dall’altro il consumatore/follower può ‘abbassare le difese’ di fronte alla pubblicità veicolata in maniera occulta.
Se la relazione talvolta quotidiana con l’influencer – fatta di like, visualizzazioni, commenti – spinge l’utente a fidarsi della sua opinione, allora l’influencer che fa pubblicità non può (e non deve) nascondere l’intento pubblicitario del messaggio. L’influencer marketing, in quanto pratica commerciale, deve pertanto conformarsi alle regole di trasparenza e correttezza pubblicitaria.
D’altra parte, gli strumenti necessari ad assicurare una piena trasparenza del social media advertising esistono e sono a disposizione dei soggetti che utilizzano i social come piattaforma pubblicitaria.
Da ultimo, accanto all’aspetto tecnologico della questione, occorre tenere presente anche quello culturale, relativo cioè alla diffusione dei principi di correttezza e di trasparenza dell’advertising ai vari livelli aziendali e nei rapporti tra aziende e influencer.
In tal senso, un importante ruolo potrebbe essere svolto, come già evidenziato, dall’adozione di linee guida aziendali e di clausole contrattuali standard finalizzate a promuovere l’importanza e la necessità di rispettare, anche per le pratiche pubblicitarie sui social media, le regole del Codice del Consumo, e in particolare il divieto di pubblicità occulta.
[1] Secondo le statistiche, sono circa 3.6 miliardi gli utenti che usano i social network, e la media di utilizzo giornaliera è pari a 144 minuti. Fonte: https://sproutsocial.com/insights/social-media-statistics/
[2] Comunicazione dell’AGCM relativa al primo invio di lettere di moral suasion a brand e influencer (24 luglio 2017). Disponibile all’url: https://www.agcm.it/media/comunicati-stampa/2017/7/alias-8853
[3] Nel comunicato “Pubblicità trasparente su social media, influencer recepiscono le indicazioni Agcm ma il monitoraggio sul fenomeno proseguirà”, l’Autorità precisava che: “Gli influencer, infatti, sono personaggi di riferimento del mondo on line, in grado di influenzare i gusti del pubblico mostrando sostegno o approvazione per determinati marchi e generando così un effetto pubblicitario”. Disponibile all’url: https://agcm.it/media/comunicati-stampa/2017/12/alias-9049
[4] Nella sua seconda moral suasion (6 agosto 2018), l’AGCM sottolineava la progressiva estensione dell’influencer marketing anche a soggetti (influencer) dotati di un minor seguito: “Tale forma di comunicazione, inizialmente utilizzata da personaggi di una certa notorietà, si sta diffondendo presso un numero considerevole di utenti dei social network anche con un numero di follower non particolarmente elevato.”
[5] A questo proposito, nella prima moral suasion l’AGCM afferma che l’influencer marketing “sta assumendo dimensioni crescenti in ragione della sua efficacia derivante dal fatto che gli influencer riescono a instaurare una relazione con i followers-consumatori, i quali percepiscono tali comunicazioni come consiglio derivante dall’esperienza personale e non come comunicazione pubblicitaria”.
[6] La fiducia è un elemento importante dell’influencer marketing. Così C. RIEFA, L. CLAUSEN, in Towards fairness in digital influencers’ marketing practices, 2019: “Brands have always relied on advertising and endorsements to boost sales. In particular, celebrities have played a major role in promoting goods and services. But the spread of social media and online intermediary platforms that rely on user ratings to create trust amongst participants is changing this dynamic. New brand ambassadors have emerged. Digital influencers are winning the battle for consumer trust.” Disponibile su: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3364251
[7] C. RIEFA, L. CLAUSEN, op. cit.: “The success of digital influencers’ marketing is based on the search for more authenticity in the connections a brand makes with its customers. Arguably, it acts as a “power shift” tool enabling the consumer to choose when and what information to gather, rather than relying on the business to provide the right information.”
[8] Commissione UE, Behavioural Study on advertising and marketing practices in online social media, Final Report, p. 32: “In comparison to native advertising, the advantage of influencer marketing is that it bears even fewer of the characteristics that make it possible for consumers to identify an advertisement. First, the content is published by an individual person – not a business. Second, it is typically presented as a personal endorsement rather than the direct and clearly identifiable promotion of a product. As such, influencer marketing often appears to consumers as a spontaneous, non-commercial post.”
[9] Comunicazione prima moral suasion di AGCM: “Spesso, le immagini con brand in evidenza, postate sul profilo personale del personaggio, si alternano ad altre dove non compare alcun marchio, in un flusso di immagini che danno l’impressione di una narrazione privata della propria quotidianità”.
[10] Si legge nel Provvedimento PS11435 – n. 28167 del 2020: “Va, infatti, osservato che nel “mondo digitale” - sempre più in espansione - post, tweet, foto e video pubblicati sui social media costituiscono gli strumenti abituali per comunicare il proprio mondo, coinvolgendo emotivamente i destinatari nel proprio racconto. Da qui discende la necessità - nel caso in cui sussista un rapporto di committenza tra il personaggio e il marchio evidenziato - di rendere i consumatori consapevoli del fatto che si trovano di fronte ad un vero e proprio messaggio pubblicitario, e non di fronte ad un racconto spontaneo e disinteressato del vissuto quotidiano del personaggio di turno.”
[11] Nella seconda moral suasion, l’AGCM sottolineava che “le piattaforme di social network mettono a disposizione degli influencer specifici strumenti per rendere manifesto agli utenti il rapporto di sponsorizzazione”.
[12] Le considerazioni in tema di call to action emergono dal Provvedimento PS12009 – n. 29837 del 2021.
[13] Per quanto attiene al co-marketing, nel provvedimento PS11270 – n. 27787 del 2019, si legge che la clausola standard prevede “l’obbligo per i partner commerciali di adottare tutte le misure e le cautele necessarie per evitare il verificarsi di fenomeni di pubblicità occulta e richiamare l’influencer all’assunzione di corrette modalità di comportamento. In base alla suddetta clausola, ove venisse a conoscenza di condotte scorrette […] applicherà la seguente procedura: […] invierà un warning formale al partner commerciale per segnalare la condotta scorretta individuata e invitarlo a farla cessare, nonché a vigilare in modo più accurato sull’osservanza da parte degli influencer del divieto di pubblicità occulta; qualora il partner non si attivi (o si tratti di un partner che è già stato destinatario di un warning), […] applicherà una penale, commisurata al valore economico del contratto e alla gravità della violazione”. Si prevede inoltre, per i casi più gravi, la risoluzione del contratto.
[14] Ad es., nel già citato Provvedimento n. 28167 del 2020, si legge che, nel caso in cui sia l’agenzia ad instaurare una relazione contrattuale per conto della società, il contratto tra società e agenzia “oltre a prevedere l’obbligo a carico di quest’ultima di stipulare con gli influencer contratti con cui questi si vincolano al rispetto delle Linee Guida, conterrà clausole volte a responsabilizzare ulteriormente l’agenzia che vigilerà attentamente sull’operato degli influencer, così attivandosi tempestivamente […] per garantire l’osservanza delle Linee Guida”. Inoltre, i meccanismi di deterrenza e sanzionatori devono essere applicati “a seconda delle circostanze concrete (ad es., gravità della violazione, valore del contratto) e nel rispetto della propria autonomia imprenditoriale e libertà contrattuale”.