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DIRITTO DELLA CONCORRENZA | I nostri abstract | Dalla biblioteca di Graziadei Studio Legale | Aggiornata al 22/12/2022



INDICE DELLE ULTIME SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE:

§16. Valeria Falce, Rapporti asimmetrici tra imprese e soluzioni pro-concorrenziali
§15. Mario Midiri, Le piattaforme e il potere dei dati (Facebook non passa il Reno)
§14. Arturo Leone, Advertising e tutela del consumatore verde
§ 13. Daniela Caterino, Denominazione e labeling della società benefit, tra marketing “reputazionale” e alterazione delle dinamiche concorrenziali

§ 12. Valeria Falce, Appunti sul regolamento europeo sul geo-blocking e la neutralità geografica. In cammino verso il mercato unico digitale

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§16. Valeria Falce, Rapporti asimmetrici tra imprese e soluzioni pro-concorrenziali, in Rivista di diritto industriale n. 4-5/2021, Giuffrè Francis Lefebvre

 

Il contributo ricostruisce la nascita e l’evoluzione della fattispecie dell’abuso di dipendenza economica, tanto all’interno dell’ordinamento nazionale, quanto nei suoi rapporti con alcune recentissime iniziative legislative di stampo europeo.       
Poste le basi costituzionali dell’istituto in termini di bilanciamento tra diritto all’iniziativa economica privata e dovere di solidarietà, l’Autrice sottolinea in prima battuta che la «prospettiva privatistica degli squilibri negoziali» è stata «nel tempo completata di una componente pubblicistica». Ed è proprio questa duplice dimensione, privatistica e pubblicistica, dell’abuso di dipendenza economica a fare da chiave di lettura primaria per la successiva esegesi della fattispecie. 



In assenza di una regolazione specifica, il problema del grave squilibrio contrattuale tra le parti, frutto di una dipendenza economica che rende non sostituibile il rapporto per la parte debole, e che porta quest’ultima, di conseguenza, «ad accettare comportamenti opportunistici difficilmente aggredibili attraverso i tradizionali rimedi legali», è stato inizialmente affrontato, nella dimensione del private enforcement, con la «legge sulla sub-fornitura del 1998». Qui, spiega l’Autrice, si fa specifico riferimento a uno squilibrio di diritti e obblighi che si riverbera esclusivamente sul rapporto negoziale, senza effetti ulteriori sul mercato. Il completamento della fattispecie, con una «virata pubblicistica», arriva, successivamente, con l’attribuzione all’Antitrust di un potere di intervento appunto quando la condotta in questione produca, invece, effetti rilevanti sul mercato.        

Sul piano dell’enforcement pubblicistico, appare degno di nota il richiamo alla casistica dell’Antitrust, che mette in luce una pluralità di condotte abusive: tra queste, l’imposizione di obblighi (canoni, royalties, strutture di vendita, esclusive, tipologie di arredi), sovente «estremamente gravosi e non strettamente necessari», che, a seconda dei casi, rischiano di precludere al soggetto debole la facoltà «di operare con imprese concorrenti», o «di porsi in diretta competizione», o, ancora di effettuare una «eventuale riconversione». Soprattutto, la rassegna di interventi antitrust consente di uscire da un possibile equivoco, attribuendo invece con chiarezza all’abuso di dipendenza economica la qualifica di «fattispecie autonoma sulla base di indici diversi e complementari rispetto a quelli tipici dello strumentario antitrust». 
Sul piano dell’enforcement privatistico, i precedenti giurisprudenziali messi in rassegna evidenziano - probabilmente anche in virtù della collocazione dell’istituto dell’abuso di dipendenza economica all’interno di una lex specialis (come detto, quella sulla sub-fornitura) - una varietà di spunti interpretativi circa la natura del rapporto, tra indirizzi più restrittivi («una situazione di abuso può realizzarsi esclusivamente nell’ambito di un contratto di subfornitura») e altri invece più estensivi («ogni tipologia di rapporto […] tra le imprese può essere influenzata da significative asimmetrie»), passando tuttavia anche per posizioni intermedie («l’abuso di dipendenza economica trova applicazione nei confronti di tutti i rapporti verticali che risultano compatibili con la subfornitura»). Da notare, peraltro, che questa non completa e perfetta uniformità di giudizio sembra aver resistito anche all’intervento della Cassazione, la quale, ricorda l’Autrice, ha precisato come l’abuso di dipendenza economica trovi «applicazione generale, che non necessita di uno specifico rapporto di subfornitura».     
Margini di discordia si riscontrano poi anche nella lettura del concetto di dipendenza economica, fondato sui «requisiti cumulativi», in danno alla parte debole, dell’eccessivo squilibrio contrattuale e dell’assenza di alternative soddisfacenti sul mercato. 

Il requisito dello squilibrio di diritti e obblighi delle parti è stato variamente interpretato, soprattutto con riferimento alla sua portata e ai parametri valutativi, talvolta rispondenti a logiche strettamente giuridiche che escludevano la sussistenza dello stato di dipendenza economica in virtù della sola circostanza che entrambe le parti godessero del diritto di recesso. In altri casi, invece, tale ultimo diritto è stato qualificato come un dato esclusivamente formale, non suscettibile, di per sé, di escludere che una delle parti potesse trovarsi in una posizione contrattualmente subordinata. 

Quanto al requisito dell’assenza di alternative soddisfacenti, l’Autrice ricorda che tale assenza è desumibile o «dal punto di vista oggettivo, in quanto non sono reperibili alternative», oppure «dal punto di vista soggettivo, dal momento che gli investimenti sostenuti non possono essere riutilizzati altrove ovvero reimpiegati». 

Più in generale, il lavoro dà conto anche della posizione secondo la quale la fattispecie in parola sarebbe rinvenibile anche in un perimetro esterno, e più eterogeneo, di quello strettamente collegato ai requisiti previsti dalla legge.  

A tali riflessioni segue, poi, una panoramica non esaustiva di alcune tipologie di condotte abusive, tra cui la «fissazione unilaterale di condizioni contrattuali (compreso il prezzo)», la «interruzione arbitraria delle relazioni commerciali in atto» e la «significativa limitazione degli ordini effettuati», il cui minimo comun denominatore è la violazione dei principi di correttezza e buona fede.

Tenendo conto dell’importanza che la tematica dell’abuso di dipendenza economica sta avendo nel mondo digitale (soprattutto e-commerce), è senz’altro da segnalare anche il sintetico, ma efficace, esame di una recente proposta legislativa nazionale (ora tradotta, con modificazioni, nella Legge n. 118/2022, n.d.r.), mossa dall’obiettivo di ampliare la fattispecie sia mediante «l’inserimento di una presunzione superabile di dipendenza nel caso di impresa che utilizza servizi di intermediazione forniti da una piattaforma digitale che abbia un ruolo determinante per raggiungere utenti finali o fornitori», sia attraverso l’introduzione di un «elenco di pratiche che possono integrare un abuso di dipendenza economica», pratiche probabilmente «suggerite dall’esperienza dei rapporti tra le grandi piattaforme digitali e le imprese che si avvalgono dei loro servizi di intermediazione». Pregio della norma in questione sembra essere un più agevole «accesso alla giustizia rispetto a pratiche dell’ecosistema digitale», in virtù della suddetta presunzione (comunque superabile). E proprio l’accesso alla tutela civile o amministrativa consente alla norma, quantomeno nella lettura offertane dall’Autrice, di superare le eventuali critiche di superfluità legate all’avvento del Digital Markets Act: l’abuso di dipendenza economica, infatti, si integra e si completa col Regolamento europeo, dato che il DMA, in quanto norma pubblicistica, non offre una tutela diretta agli utilizzatori. 

Complessivamente, dunque, il lavoro intende far risaltare le solide fondamenta e i solidi criteri applicativi della fattispecie commentata, i cui ambiti e contorni sono, tuttavia, ancora in divenire. In tal senso, anche in virtù degli evidenziati obiettivi di tutela dell’equilibrio contrattuale delle relazioni economiche, la sua espansione «va accompagnata e non ostacolata o rallentata». 

 

 

§15. Mario Midiri, Le piattaforme e il potere dei dati (Facebook non passa il Reno), in Il diritto dell’informazione e dell’informatica, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 2/2021

Il contributo, focalizzandosi sul binomio piattaforme/dati nell’ecosistema digitale, effettua una ricostruzione del recentissimo caso Facebook/Bunderskartellamt, nonché una sintesi di alcune delle principali novità del Digital Services Act Package e una ricognizione del ruolo delle piattaforme nella moderna economia.

Dalla composizione di tali elementi emerge appieno l’obiettivo dell’Autore: rimarcare l’importanza di una puntuale e unitaria regolazione dei mercati digitali, anche al fine di rimediare alle lunghe tempistiche dell’intervento antitrust e di anticipare le possibili frammentazioni nazionali derivanti dal “malessere diffuso” verso il potere economico dei dati.

L’Autore conduce in tal senso un’indagine che si dispiega tra innovazione e sviluppo economico, tra gatekeeper e regolazione, nell’ambito di un mercato dalle dinamiche “winner takes all” in cui i cicli monopolistici - che ci si potrebbe attendere brevi in virtù della spinta all’innovazione  - rischiano invece di allungarsi.


D’altra parte, il riconoscimento della rilevanza dei dati ai fini del potere digitale sembra porsi alla base del richiamato caso Facebook, nell’ambito del quale la privacy degli utenti è divenuta freccia dell’arco antitrust. Il caso rappresenta dunque lo spunto per un esame degli effetti escludenti derivanti non soltanto dalle esternalità di rete e dal possesso dei dati, ma anche (e forse soprattutto) dalla combinazione e dall’elaborazione che Facebook fa dei dati generati anche da altri servizi (Whatsapp, Instagram, siti terzi).

L’Autore, ricordando che la vicenda non ha ancora trovato una conclusione - è stata infatti sollevata questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia - ritiene confermata “l’impressione che il procedimento antitrust - già articolato di suo - arrivi troppo tardi al momento esecutivo, quando le condotte constestate hanno avuto modo di consolidarsi a danno degli utenti … e dei potenziali concorrenti.


Torna dunque - data la mobilità del contesto digitale e le incertezze di possibili approcci antitrust alternativi (ad esempio fondati sulla data protection) - il tema centrale del contributo, vale a dire la rilevanza della regolazione euro-unitaria come fonte di obblighi e divieti, con il DMA che sembra peraltro offrire soluzioni concrete al problema emerso dalla vicenda in esame.



§14. Arturo Leone, Advertising e tutela del consumatore verde, in Il diritto industriale, IPSOA, n. 1/2021
Le esigenze di sostenibilità ambientale e la crescente attenzione del consumatore verso la tematica verde hanno favorito, nel tempo, l’emergere del cosiddetto «green marketing», in cui l’incontro tra ecologia e comunicazione commerciale richiede una specifica tutela del consumatore.

Partendo da questi concetti, il lavoro intende ricostruire il quadro normativo relativo ai «claim ambientali», con una particolare attenzione al green washing, cioè all’uso scorretto e non veritiero di affermazioni pubblicitarie ambientali.

La decettività delle comunicazioni ambientali è inquadrata nel contesto delle pratiche commerciali scorrette. Manca, allo stato, una «normativa specifica in materia di armonizzazione del “marketing verde”».

Da ciò discende la rilevanza, a livello europeo, della direttiva 2005/29/CE e, a livello nazionale, del Codice del Consumo, che detta specifici requisiti per la pubblicità - inclusa quella green - onde evitare l’inganno del consumatore.

Le iniziative normative specifiche sembrano invece attenere ad una sfera volontaria, come il Codice di Autodisciplina delle Comunicazioni Commerciali ed il logo «Made green in Italy», introdotto dalla Legge 221/2015. Emerge dunque, secondo l’Autore, un quadro normativo «esile», ma al tempo stesso composto da una pluralità di orientamenti, raccomandazioni, regole settoriali (incluse le normative tecniche ISO, pure esaminate nel contributo in relazione alle asserzioni etiche).

L’Autore auspica dunque l’avvento di iniziative europee volte ad aumentare la certezza degli operatori di mercato, in un contesto in cui – sembra questa la tesi di fondo - la comunicazione commerciale ambientale, per non diventare greenwashing, richiede comunque un accorto bilanciamento tra «creatività pubblicitaria» ed «esigenza di trasparenza» del green marketing.



§ 13. Daniela Caterino, Denominazione e labeling della società benefit, tra marketing “reputazionale” e alterazione delle dinamiche concorrenziali, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 47.4/2020
Il lavoro esamina la disciplina della società benefit, focalizzando l’attenzione sul rapporto tra “essenza” e “nome” del fenomeno, soprattutto con riferimento al perseguimento del beneficio comune e alle sue ricadute concorrenziali.

Uno scopo, quello del beneficio comune, che si riflette obbligatoriamente nello statuto (e nell’agire) della società, e solo eventualmente nel nome (denominazione sociale, titoli, comunicazioni). Dunque la società benefit viene legittimata a «fregiarsi di un label, che è solo la manifestazione esteriore, peraltro non obbligata, di un connotato organizzativo e finalistico dell’attività economica svolta».

Ma, se risultano illeciti sia il mancato perseguimento della finalità, sia la falsa indicazione della denominazione, cosa accade quando si verifica uno scollamento tra nome ed essenza della società benefit?

L’Autrice innesta sul punto un parallelo con altri due settori, quello bancario e quello ETS. Se nel caso del settore bancario «la filiera denominazione riservata/riserva di attività/sanzione amministrativa nei confronti dell’abuso di denominazione» tutela in sostanza la fiducia nel sistema, nel caso degli enti del terzo settore, dove si tutelano «connotati comportamentali rigidi» (ad es., assenza di distribuzione di utili, devoluzione del patrimonio residuo), l’uso della denominazione può comportare anche un vantaggio concorrenziale, nella specie reputazionale.

E proprio il tema della reputazione, e del potenziale vantaggio competitivo, torna anche nella “società benefit”. Etichetta, questa, utilizzabile come «attrattore di clientela». L’aspetto sanzionatorio correlato alla questione, nonostante un basso livello di enforcement (quella delle società benefit non è, secondo alcuni, una normativa produttiva di regole di governance), si pone a tutela di vari profili.

Anzitutto, l’Autrice ricorda il corretto orientamento della clientela e il diritto del consumatore a scegliere sulla base di informazioni veritiere. D’altra parte, vi sono poi due ulteriori profili, e cioè il diritto della generalità degli imprenditori a non subire un pregiudizio concorrenziale da un competitor che millanta caratteristiche inesistenti, e l’aspettativa, da parte delle vere società benefit, a veder tutelata la denominazione rispetto ad usi impropri.

Si profila dunque una duplice tutela: da un lato quella B2C, ai sensi del Codice del Consumo (pratiche commerciali scorrette); dall’altro, quella B2B, legata alla pubblicità ingannevole. Ancora l’autrice ritiene ipotizzabile l’applicazione dell’istituto codicistico della concorrenza sleale, perché «l’indebito utilizzo dell’etichetta … falsifica quella identità e costituisce elemento che può influenzare le decisioni dei consumatori e sviare la clientela», danneggiando peraltro, dal punto di vista reputazionale, l’intero sistema delle società benefit.



§ 12. Valeria Falce, Appunti sul regolamento europeo sul geo-blocking e la neutralità geografica. In cammino verso il mercato unico digitale, in Contratto e impresa, CEDAM, n. 4/2019         
Uno degli interventi regolatori più discussi nell’ambito della Digital Single Market Strategy è il cd. Regolamento sul geo-blocking, le cui finalità e interazioni con il diritto della concorrenza rappresentano il tema del lavoro qui segnalato.         
L’obiettivo di superare i blocchi territoriali, afferma l’Autrice, ruota attorno al concetto di «accesso»: accesso a siti e interfacce, a beni e servizi, a mezzi di pagamento. Ma l’eliminazione delle pratiche di geo-blocking – e dunque della segmentazione geografica – è obiettivo comune anche all’enforcement antitrust, il quale si è perciò focalizzato su quelle intese restrittive e su quelle restrizioni alla vendita che comportassero una compartimentazione dei mercati, contraria agli obiettivi del TFUE.
Come conciliare, dunque, la portata del nuovo Regolamento con le preesistenti politiche della concorrenza, senza rischiare di relegare il Reg. sul geo-blocking a pedina secondaria? La tesi qui avanzata immagina una «interazione smart tra regolazione e concorrenza», in cui i due strumenti – pur partendo da presupposti parzialmente differenti – possano coesistere e operare al comune fine di prevenire la nascita (o la persistenza) di ingiustificate barriere geografiche.



§ 11. Emanuela Arezzo, Brevetti essenziali, dominanza e abuso nel settore delle information & communication technologies, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 46.5/2019  
Gli standard tecnologici, pur caratterizzati da effetti positivi tanto per le imprese quanto per i consumatori (esternalità di rete, interoperabilità, riduzione dei costi), portano con sé tutta una tematica legata all’accesso alla tecnologia, e più in particolare ai brevetti essenziali per il loro funzionamento: un ambito, questo, nel quale sono ipotizzabili comportamenti opportunistici, soprattutto da parte di imprese titolari di brevetto verticalmente integrate, cioè presenti sia a monte – nella creazione dello standard – sia a valle – nella vendita di prodotti basati sullo standard. Il lavoro in commento prende spunto proprio da simili riflessioni per interessarsi delle interferenze tra IPRs e concorrenza, allorquando si valuti la potenziale posizione dominante del titolare di uno Standard Essential Patent (SEP). L’Autrice mira a sconfessare facili automatismi antitrust, e a sostenere invece la posizione presa anche dalla Commissione UE, secondo la quale «the mere ownership of a SEP does not […] in itself equate to dominance».   
Bisogna, in altre parole, valutare caso per caso se e quanto la tecnologia brevettata risulti vincolante per l’implementazione dello standard. Smontando la narrativa tradizionale SEP/standard, si propone dunque un nuovo “two-step test” per misurare il market power legato alla titolarità di un SEP. Tale test, muovendo anche dalla teoria delle circostanze eccezionali, sarà chiamato a valutare in prima battuta l’effettiva indispensabilità dello standard per competere nel mercato (o viceversa la presenza di tecnologie sostituibili); in seconda battuta, appurata l’essenzialità dello standard, a verificare l’essenzialità del singolo brevetto nell’economia complessiva dello standard.



§ 10. Annalisa Pistilli, Pratiche commerciali aggressive e servizi di telecomunicazione, in Il Diritto Industriale, IPSOA, n. 3/2019         
Il contributo qui segnalato offre un’interessante analisi di una recente sentenza nella quale la Corte di Giustizia UE ha fatto chiarezza in materia di pratiche commerciali aggressive nelle comunicazioni elettroniche. Il rinvio pregiudiziale del Consiglio di Stato, nato da una sanzione comminata da Agcm a due primarie compagnie tlc, ha dato modo alla corte di illustrare il rapporto tra intervento antitrust ‘generale’ (Agcm) e intervento ‘settoriale’ (Agcom) nei settori regolamentati.   
La pratica commerciale in questione consisteva nell’attivazione automatica di servizi telefonici a pagamento, in assenza di adeguata informazione al consumatore. La fattispecie, ricorda con chiarezza l’Autrice, è quindi inquadrabile nella categoria della fornitura di un servizio non richiesto dall’utente, una pratica commerciale aggressiva ai sensi della direttiva 2005/29/CE. «La richiesta di un servizio» si afferma infatti, «deve consistere in una scelta libera da parte del consumatore e, se quest’ultimo non è stato adeguatamente informato di tutti gli aspetti rilevanti del rapporto di consumo, deve escludersi che la scelta commerciale si sia formata liberamente».          
Tra obbligo di informazione del professionista e nozione di consumatore medio quale parametro di riferimento, emerge dunque il favor della Corte per l’assorbimento, nell’ambito antitrust generale, delle valutazioni relative alle pratiche commerciali aggressive (anche) nel settore delle telecomunicazioni.



§ 9. Carolina Magli, Pratiche commerciali scorrette e rimedi civilistici nel contesto della responsabilità sociale d’impresa, in Contratto e impresa, Cedam, n. 2/2019              
Consapevolezza e trasparenza rappresentano i due concetti chiave attorno ai quali oggi va costruendosi una relazione sempre più dinamica tra impresa e consumatore. Tematiche come il rispetto dei lavoratori e dell’ambiente, pur estranee alla qualità del prodotto/servizio, contribuiscono sempre più spesso a determinare le scelte di consumo.
Ma cosa accade, allora, se l’impresa fornisca informazioni non veritiere?
Al netto della pur significativa perdita di credibilità sul piano sociale, è il piano giuridico che viene affrontato nel contributo, con un inquadramento della fattispecie nell’ambito delle pratiche commerciali scorrette, cioè quelle pratiche capaci di falsare in modo apprezzabile il comportamento economico del consumatore.
Quali, allora, i rimedi civilistici posti in capo a quest’ultimo?           
L’attenzione dell’Autrice, in costanza di una disciplina europea che lascia alla discrezione nazionale la predisposizione di una tutela effettiva, si sofferma «sui rimedi invalidatori». Quindi, nullità e annullabilità, con un favor verso la seconda, dato che le pratiche commerciali scorrette non sembrano colpire gli elementi costitutivi del contratto, solo vizio che lascerebbe azionare la nullità.
Alla tutela civilistica in senso stretto si somma poi la tutela più specificamente consumeristica, propria della vendita di beni di consumo, potenzialmente consistente nella riduzione del prezzo, nella risoluzione del contratto o nel risarcimento. Rimedi, quelli consumeristici, che a conti fatti risultano di più agevole azionabilità, considerando che non necessitano delle più stringenti prove richieste per la tutela invalidatoria.



§ 8. Vincenzo Franceschelli, Fake news e Social networks: riflessi sul diritto d’autore e concorrenza, in Il Diritto industriale, Wolters Kluver, 2/2019          
E’ cosa nota che il digitale, ecosistema ubiquo e capace di accantonare i filtri tradizionalmente interposti tra persone e imprese, ha stravolto il concetto stesso di comunicazione aziendale.  
Il contributo segnalato inquadra questo tema sotto la prospettiva del diritto della concorrenza: le regole valide nel mondo ‘analogico’, strutturatesi ed ampliatesi nel corso di un secolo, mal si relazionano con piattaforme, come i social network, grazie alle quali milioni di persone e di aziende, ogni giorno, possono far sentire la propria voce con un clic. “Il diritto è in affanno” sostiene l’Autore. “L’ingresso delle imprese nei social networks aggiunge i temi della concorrenza, della concorrenza sleale, della pubblicità”.   
Nuovi problemi giuridici si affacciano alle finestre del web, e tra questi, in ottica antitrust, rilevano particolarmente le fake news e il rapporto tra queste e l’attività degli influencer. L’Autore offre sul punto un approccio critico alla definizione del fenomeno, con una parentesi di matrice filosofica propedeutica alla predisposizione dei remedies. Il suggerimento, in un contesto in cui all’influencer è richiesta maggiore trasparenza sull’autenticità e sulla provenienza delle notizie che egli diffonde ai propri follower (in termini di collegamento ‘pubblicitario’ con le imprese), è quello di applicare i metodi già usati per la protezione della proprietà intellettuale: per esempio, il meccanismo del notice and takedown, in questo caso con l’eliminazione dei contenuti falsi, adattando peraltro il più possibile “le regole del diritto materiale al mondo immateriale”.  



§ 7. Federico Ghezzi, Le linee guida sull’antitrust compliance, tra finalità educative e dissuasive ed incentivi ad una condotta “eticamente corretta” dell’impresa, in Rivista delle società, n. 1/2019, Giuffrè Francis Lefebvre       
La prevenzione degli illeciti anticoncorrenziali, è noto, rappresenta un tema su cui il Regolatore spende cospicue energie, anche al fine di creare quella “cultura della concorrenza” capace di favorire l’innovazione e il benessere dei consumatori.   
È proprio in questo solco che si inseriscono le recenti linee guida di AGCM sulla compliance antitrust, di cui il saggio offre una ricostruzione e una sistematizzazione all’interno “del ventaglio degli strumenti di enforcement”.          
Il punto di partenza è un incentivo all’adozione e al rispetto di programmi di compliance, parametrati sulle best practices. Il “premio” offerto alle imprese è un’attenuazione delle eventuali sanzioni comminate per violazioni antitrust, con uno sconto massimo rispettivamente del 15% per i programmi adottati ex ante facto e del 5% per quelli adottati ex post facto. Tale differenziazione, sottolinea l’Autore, rappresenta un modo per sfavorire comportamenti strategici e opportunistici da parte delle imprese.
Ma se i programmi di compliance rispondono al tradizionale doppio binario dell’enforcement antitrust, da un lato educando l’impresa, dall’altro consentendo di individuare e di porre più rapidamente fine alle violazioni, essi possono tuttavia - offrendo all’impresa una migliore conoscenza delle pratiche - rappresentare un paradossale ostacolo all’attività di accertamento. Diviene fondamentale, allora, “la selezione degli incentivi e la loro modulazione", al fine di orientare nel verso giusto le scelte delle imprese.
D’altra parte, come si afferma nel saggio, le linee guida sembrano scoraggiare mere operazioni cosmetiche, dato che, al fine di ottenere la diminuzione della sanzione, “al programma […] deve essere data una fattiva e concreta attuazione”. 
Da ultimo, è dedicato ampio spazio all’ambivalente rapporto tra programmi di compliance e programmi di leniency: l’Autore propone, in particolare, un parziale ripensamento del regime di incentivi, al fine di integrare correttamente i due programmi, con maggiore utilità per  l’interesse pubblico.



§ 6. Sara Alvanini, L’ambush marketing, in Il Diritto Industriale, Wolters Kluver, n. 1/2019       
La controversia tra Wind Tre e Disney relativa all’utilizzo a scopi promozionali di un prodotto appartenente all’universo di Star Wars (il robottino BB-8) in occasione del lancio dell’ultimo film del brand è lo spunto per un inquadramento sistematico, nell’ambito della disciplina della concorrenza sleale, della nota fattispecie dell’ambush marketing.         
Dopo aver delineato i termini delle due ordinanze con cui il Tribunale di Milano ha sanzionato Wind Tre, l’Autrice ricostruisce storia e caratteristiche della figura dell’ambush marketing, cioè di “quelle situazioni in cui un’impresa tenta di sfruttare a proprio vantaggio un evento mediatico […] senza pagarne i costi di sponsorizzazione, o per una licenza, o comunque senza avervi alcun legame di tipo economico”.
Particolarmente interessante risulta essere la classificazione proposta dall’Autrice, tra le fattispecie di ambush marketing in cui lo sfruttamento dell’evento è diretto da quelle in cui invece l’utilizzo è indiretto e “più creativo”. Un esempio della prima tipologia è il cosiddetto predatory ambushing (utilizzo diretto, in termini di contraffazione, di segni distintivi riconducibili all’evento mediatico). Del secondo gruppo è invece possibile ricordare il saturation ambushing (offuscamento della reale sponsorizzazione dell’evento), l’ambush by intrusion (“iniziative di marketing a sorpresa durante, all’interno o in prossimità di un evento”) e il coat-tail ambushing (associazione indiretta tra l’impresa “ambusher” e l’evento).  
L’inquadramento giuridico dell’ambush marketing sembra perciò dividersi tra la disciplina dei segni distintivi, nel caso di utilizzo diretto (in particolare “la contraffazione dei marchi e dei segni notori propri dell’evento”), e la disciplina della concorrenza sleale, laddove invece i riferimenti all’evento da parte del free rider siano solamente indiretti (in particolare, il riferimento è all’agganciamento, all’appropriazione di pregi e alla scorrettezza professionale, ma non – secondo l’Autrice – alle pratiche commerciali ingannevoli).



§ 5. Alessandro Pepe, Pratiche commerciali scorrette e tutela dei diritti dei passeggeri, in Contratto e impresa, Cedam, n. 1/2019 
La trasversalità della disciplina delle pratiche commerciali scorrette (PCS), tale da renderla applicabile a tutte quelle operazioni commerciali che coinvolgono un professionista e un consumatore, importa una inevitabile intersezione - e perciò un potenziale conflitto - tra regolamentazione antitrust e regolamentazione settoriale.  
Con specifico riferimento al settore dei trasporti, l’Autore indaga quindi le modalità con cui viene effettuato il coordinamento tra le predette discipline. La base normativa da cui partire è offerta dalla Direttiva 2005/29/CE: in caso di conflitto, sono le previsioni regolamentari settoriali a prevalere sulla disciplina generale delle PCS. Un esempio di ciò è offerto dalla comune pratica dell’overbooking aereo, una pratica “scorretta” ma ammessa dalla disciplina settoriale (pur con determinate tutele per il passeggero). Tuttavia, ammonisce l’Autore, l’esistenza di una regolamentazione di settore non può e non deve portare a una “generalizzata disapplicazione della disciplina” delle PCS, anche perché, a fronte di conflittualità, esistono altri casi in cui invece i due ambiti normativi possono trovare contestuale applicazione, completandosi vicendevolmente e rafforzando così la tutela del consumatore, con la regolazione antitrust chiamata a un ruolo di raccordo, una “safety net” estesa ai diversi settori commerciali.  
Un riparto di competenze così strutturato, ricorda l’Autore, ha tradizionalmente favorito - anche in presenza di una regolazione settoriale - l’intervento sanzionatorio di Agcm, volto a colpire PCS capaci di alterare la decisione commerciale del consumatore: i numerosi esempi riportati riguardano, in particolare, la scarsa trasparenza e completezza informativa sul costo finale del servizio, sulle soluzioni di viaggio offerte e persino sull’identità della compagnia materialmente chiamata a effettuare il volo.  



§ 4. Francesca Vessia, Big Data: dai vantaggi competitivi alle pratiche abusive, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Francis Lefebvre, 45.6, 2018     
Come preservare la struttura concorrenziale dei mercati digitali, a fronte di un fenomeno dirompente e multidisciplinare quale i Big Data? È questo il tema cui il saggio dedica una pregevole ricostruzione delle più attuali teorie circolanti in dottrina e nelle decisioni delle Authorities.       
I Big Data rappresentano una landa ancora parzialmente inesplorata, un terreno fertile di nuove business strategies e di nuovi vantaggi competitivi: uno su tutti, il potere escludente che il possesso dei dati conferisce alle imprese. L’approccio, in un ambito ancora ricco di domande, si è finora assestato sul case-by-case. È stato così per la definizione dei mercati rilevanti, sospesa tra autonomo mercato dei dati (Big Data come output) e mercati in cui i dati sono al servizio delle imprese (Big Data come input), e anche per la definizione del ruolo concorrenziale dei Big Data: sono un asset aziendale, parte del know-how al pari di un brevetto o di un software, o possono essere considerati come una essential facility?
In entrambi i casi, una delle maggiori preoccupazioni antitrust è la foreclosure che l’utilizzo dei dati può importare, con un innalzamento delle barriere all’ingresso e un “effetto snowball” capace di potenziare il business dei grandi player e di mortificare la concorrenzialità delle piccole aziende.
Se il problema tecnologico sembra complesso, è necessario che Authorities differenti (comunicazioni, privacy) adottino un approccio sinergico per tutelare quel consumer welfare che da sempre rappresenta la pietra angolare del sistema antitrust. I Big Data, del resto, influenzeranno in maniera sempre maggiore il benessere (o il malessere) del consumatore digitale.



§ 3. Ilaria Speziale, Sulle prospettive di difesa dalle pratiche commerciali scorrette mediante soft law, in Le nuove leggi civili commentate, CEDAM, n. 4/2018
Il ruolo dei Codici di condotta, nella loro veste di strumento di soft law atto a contrastare le pratiche commerciali scorrette, è al centro del saggio. Sul tema emerge subito una differenza tra disciplina europea e nazionale, laddove il "pilastro legislativo comunitario" (direttiva 2005/29/CE) esigerebbe un ricorso in via preliminare all'organo di controllo del codice, mentre il nostro Codice del Consumo esprimerebbe solo una possibilità di rivolgersi a tale organismo.
Entrambe le discipline, comunque, promuovono le soluzioni di soft law, strumenti duttili e flessibili, capaci di adeguarsi "ai singoli settori economici" e ai mutamenti del mercato. Sul piano dell'efficacia, l'Autrice ricorda però che i codici hanno base volontaria e associativa, vincolando solo i professionisti aderenti.
Dopo l'illustrazione di alcuni esempi di soft law nazionale e un parallelo tra Codici di condotta e Codici deontologici (esperienze distinte, ma accomunate dalla natura di "formazione negoziale del diritto"), il saggio si chiude poi sul tema della Corporate Social Responsibility: la dimensione etica e reputazionale dell'azienda sta gradualmente incoraggiando l'adesione delle imprese ai codici di best practices.



§ 2. Michele Bertani, Pratiche commerciali scorrette e violazione della regolazione settoriale tra concorso apparente di norme e concorso formale di illeciti, in Le nuove leggi civili commentate, CEDAM, n. 4/2018
Il saggio mira a porre una classificazione delle pratiche commerciali scorrette, con particolare riferimento ai casi di conflitto tra normativa antitrust e regolazione settoriale, come tali rientranti nell'ambito di Authorities differenti. 
L'analisi della normativa a protezione del contraente debole (nelle sue potenziali vesti di risparmiatore, consumatore, ecc.) non può prescindere da una ricostruzione legislativa e giurisprudenziale che ha visto coinvolti, negli ultimi anni, il Consiglio di Stato, la Commissione europea e il Legislatore nazionale.
In particolare, l'Autore ricorda che alla originaria generica prevalenza della regolazione settoriale sulla disciplina antitrust, si è sostituita una differenziazione qualitativa dei livelli comunitario e nazionale: come ricordato dalla Commissione, infatti, è possibile disapplicare la regola generale europea (direttiva 29/2005/CE) solo in presenza di una normativa settoriale di "fonte euro-unitaria" che vada a disciplinare, in contrasto con la direttiva, alcuni aspetti specifici delle pratiche prese in considerazione.
Da ciò si è assistito, anche grazie all'intervendo del Legislatore italiano (modifica dell'art. 27 Codice del Consumo), a una progressiva espansione del campo di applicazione della disciplina europea sulle pratiche commerciali scorrette, e pertanto a una progressiva espansione dell'intervento antitrust.
L'attuale coordinamento tra norme, conclude l'Autore, appare comunque confortante. La complementarietà tra discipline differenti, volta a favorire un alto livello di "protezione degli interessi consumeristici", è infatti bilanciata da una certa chiarezza del perimetro antitrust, il cui intervento è escluso solo se la pratica commerciale scorretta, in un determinato settore, è invece consentita dalla normativa settoriale.



§ 1. Marcello Clarich, Sostegno pubblico alle banche e aiuti di Stato, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Editore, 44.5, 2017                
Nel quadro economico a rischio default, seguito alla crisi finanziaria, l’Unione europea ha riscoperto forme di sostegno pubblico alle banche in difficoltà, portando “quasi al limite della disapplicazione” la regolazione comunitaria sugli aiuti di Stato.  
È questo l’assunto su cui l’Autore ricostruisce gli elementi del difficile bilanciamento tra stabilità finanziaria e level playing field, tra scelte di bail-out (con rischio modificazione dell'assetto di mercato e deresponsabilizzazione degli investitori) e di bail-in (con rischio contrario: default da disinvestimento). A fare da sfondo, la possibilità - sancita anche dai Trattati - di concedere alle imprese aiuti di Stato in situazioni eccezionali.       
Sotto quest'ultimo profilo, la politica della Commissione UE ha vissuto tre differenti fasi. L’acuirsi della crisi finanziaria ha infatti tramutato l’originaria applicazione restrittiva in una posizione più morbida, tale da consentire perfino l’intervento a sostegno di singoli istituti bancari, pur continuando a salvaguardare sul piano formale la concorrenzialità del mercato. Ma la “corsa ai sussidi” è stata presto mitigata dalla previsione di alcuni obblighi comportamentali più “pesanti” (in termini, soprattutto, di remunerazione degli investimenti e del management).        
Progressivamente, afferma l’Autore, il focus primario è tornato sull’interesse alla tutela del mercato unico.
Alle Comunicazioni della Commissione è poi seguito l’instaurarsi di una nuova regolazione, basata sulla Direttiva 2014/59/UE (Bank Recovery and Resolution Directive) e sul Regolamento 806/2014 (Single Resolution Mechanism): la prima ha mirato ad armonizzare la disciplina, mentre il secondo ha centralizzato le procedure decisionali.      
Il bilanciamento emergente, tra stabilità finanziaria e assetto concorrenziale, spinge verso la “riduzione al minimo dell’impiego di risorse pubbliche”, erogabili solo sulla base di tre presupposti applicativi (tra cui l’interesse pubblico a evitare la messa in liquidazione della banca).    
Ad ogni modo, pur nel nuovo contesto normativo, l’Autore auspica un riequilibrio dei poteri tra Istituzioni: allo stato, infatti, la Commissione UE sembra distendere sulla procedura un’ombra troppo ampia. D’altra parte, ed è questa la conclusione, la tutela degli interessi pubblici presenti nel settore bancario giustifica la “richiesta di una disciplina speciale anche in tema di aiuti di Stato”, in modo che la rigida applicazione delle regole generali, a salvaguardia dell’assetto concorrenziale, non finisca per distruggere a monte l'esistenza stessa del mercato.

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