INDICE DELLE ULTIME SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE:
§41. Paola Lucantoni, Mercato dei capitali, pandemia e informazione al mercato: il dibattito sull’evoluzione della disciplina degli abusi di mercato
§40. Marco Maltoni, Fusione e scissione di società in concordato preventivo secondo il Codice della crisi di impresa (con alcune riflessioni in merito ai nuovi articoli 120-bis e 120-quinquies)
§39. Paolo Martino, Funzione ed effetti del pegno su partecipazione in S.r.l. e individuazione della «struttura formale» del vincolo
§38. Francesco Denozza, Incertezza, azione collettiva, esternalità, problemi distributivi: come si forma lo short-termism e come se ne può uscire con l’aiuto degli stakeholders
§37. Vincenzo Di Cataldo, Serenella Rossi, Osservazioni in tema di revoca per giusta causa degli amministratori di società di capitali
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§41. Paola Lucantoni, Mercato dei capitali, pandemia e informazione al mercato: il dibattito sull’evoluzione della disciplina degli abusi di mercato, in Banca Borsa Titoli di credito, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 4/2022
Il lavoro si propone di indagare gli effetti della pandemia sulla tenuta dell’assetto regolatorio e di vigilanza dei mercati finanziari, sotto il profilo sia dell’integrità dei mercati, sia della tutela degli investitori.
Nella prima parte viene offerta una ricostruzione del «price discovery mechanism» e delle scelte di investimento ragionevoli in una situazione di normalità, mentre nella seconda parte lo «stress test» del Covid è esaminato dal punto di vista della incertezza nella formazione dei prezzi di mercato, nonché della cosiddetta gamification delle scelte di investimento.
L’Autrice traccia, in primo luogo, alcune delle linee essenziali del panorama normativo di riferimento, mettendo in risalto, in particolare, il punto di bilanciamento che si è tentato di raggiungere (anche con la Direttiva MiFID II) nella regolazione di un mercato efficiente: «in una prospettiva di paternalismo libertario, il legislatore, pur incentivando, con le regole sulla trasparenza obbligatoria, l’attività discrezionale dell’investitore, introduce la previsione di poteri, in capo a soggetti portatori di interessi pubblici (le autorità di vigilanza) e privati (gli intermediari)». Gli strumenti «di eteroregolazione delle scelte dell’investitore», tra cui le regole di product governance, sono sinteticamente, ma efficacemente, descritti.
La fase di incertezza e di instabilità del mercato finanziario, causata dal Covid, è poi lo spunto per riepilogare alcune delle iniziative di vigilanza sulle operazioni di short-selling. Un potere di intervento che risulta giustificato, a parere dell’Autrice, dalle circostanze straordinarie verificatesi, ma che lascia alcune perplessità, con riguardo al perimetro tendenzialmente nazionale degli interventi, a fronte della globalità dei mercati finanziari.
Il cuore pulsante del contributo è tuttavia rappresentato da un’ampia lettura critica delle cause del recente (e inatteso) rialzo del titolo azionario della società Gamestop, a testimonianza delle nuove forme di abuso di mercato nel contesto pandemico. Un rialzo che, come spiegato dall’Autrice, lungi dal ricollegarsi direttamente a un «aumentato valore fondamentale» della società, è stato invece il frutto di un’azione «concertata» che ha coinvolto un gran numero di piccoli investitori retail, nonché piattaforme di trading e strategie di investimento orchestrate attraverso social media.
Tale azione, si legge nel contributo, «accolta (erroneamente) come una manifestazione di democratizzazione del mercato grazie all’uso della tecnologia», in realtà «traduce con operazione di mercato una contrapposizione ideologica, di nuova generazione nel contesto pandemico tra gli investitori istituzionali e il “popolo c.d. MainStreet”».
Si assiste a un fenomeno di gamification degli investimenti, che pare essere strettamente correlato a elementi come la giovane età e la scarsa alfabetizzazione finanziaria degli investitori interessati, nonché all’utilizzo di nuovi strumenti digitali per informarsi sugli investimenti (social media) e per effettuarli (app).
Chiude il discorso un’interessante panoramica sui meccanismi che avrebbero potuto contrastare la fattispecie, se si fosse verificata nel nostro ordinamento. Ciò testimonia, sostiene l’Autrice, che la regolazione europea e nazionale possiede «efficaci strumenti per affrontare lo stress test pandemico, muovendosi tuttavia non nella direzione di rafforzare la trasparenza delle informazioni al mercato o la ragionevolezza dell’investitore, bensì da una prospettiva di paternalismo libertario che muove dai presidi regolatori e di vigilanza al fine della protezione dell’integrità dei mercati e dei singoli investitori».
§40. Marco Maltoni, Fusione e scissione di società in concordato preventivo secondo il Codice della crisi di impresa (con alcune riflessioni in merito ai nuovi articoli 120-bis e 120-quinquies), in Rivista del notariato, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 3/2022
Il lavoro illustra la sorte delle operazioni di fusione e di scissione societaria nel caso in cui esse interessino una società in concordato preventivo, con particolare riguardo alla fase decisionale dell’operazione, nonché alla possibile contestazione della stessa da parte dei creditori.
L’Autore prende le mosse da un attento esame dell’art. 116 del Codice della crisi di impresa che, come noto, dispone che i creditori possano contestare la fusione o la scissione della società debitrice soltanto mediante opposizione all’omologazione. Scopo della norma pare essere «assicurare la stabilità delle operazioni straordinarie […] di fronte al rischio di opposizioni individuali esercitate da singoli creditori ai sensi dell’art. 2503 c.c.».
Il contributo ripercorre criticamente le tappe dell’iter legislativo che ha portato, dall’iniziale identificazione del problema (cioè il rischio che un singolo creditore potesse mettere in discussione l’operazione, avvalendosi del già menzionato strumento ex art. 2503 c.c.), alla formulazione di una soluzione (appunto quella di cui all’art. 116 del nuovo Codice della crisi), che però pare far sorgere «la necessità di un completamento della fattispecie, da conseguire in via interpretativa».
Poste queste premesse, il lavoro esamina la fattispecie di cui all’art. 116 da un punto di vista oggettivo e soggettivo. Sotto il primo profilo, l’Autore identifica le ipotesi concrete cui la norma in commento può applicarsi. Sotto il secondo profilo, anche visto il «generico riferimento ai creditori» dell’art. 116, l’Autore si chiede se la platea dei creditori che devono uniformarsi alla procedura ivi prevista includa soltanto i creditori della società in concordato o anche i creditori delle altre società coinvolte dalla fusione o scissione. La soluzione preferibile pare essere la prima.
Gli ultimi due temi affrontati sono relativi al quinto comma dell’art. 116, cioè la sospensione del diritto di recesso dei soci, che «risolve una questione di conflitto fra interesse dei soci e interesse dei creditori», e agli artt. 120 bis e quinquies che, in combinazione con l’art. 116, paiono predisporre «una disciplina speciale della fusione e della scissione della società in concordato preventivo», soprattutto in relazione a due aspetti: da un lato, il momento decisionale e, dall’altro, la tutela dei creditori sociali, argomenti puntualmente esaminati dal contributo.
§39. Paolo Martino, Funzione ed effetti del pegno su partecipazione in S.r.l. e individuazione della «struttura formale» del vincolo, in Banca Borsa Titoli di credito, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 6/2021
Il contributo, prendendo spunto da una recente sentenza della Corte di Cassazione, riflette sulla costituzione del pegno su partecipazioni in società a responsabilità limitata. L’Autore evidenzia in particolare che la sentenza, riconducendo il pegno in parola alla fattispecie del pegno sui diritti diversi dai crediti, individua «il momento costitutivo della garanzia nell’iscrizione dell’atto nel registro delle imprese».
Come noto, infatti, l’art. 2806 Cod. Civ. dispone che per i diritti diversi dai crediti il pegno si costituisce nella forma richiesta per il trasferimento dei diritti stessi, e per il trasferimento delle partecipazioni societarie è appunto previsto il deposito dell’atto nel Registro delle Imprese (art. 2470 Cod. Civ.).
Per ciò che riguarda il modo di costituzione del vincolo, il contributo, data la «vicinanza funzionale» tra pegno e pignoramento, propone di modellare la struttura del pegno di partecipazione societaria di S.r.l. proprio sulla base della normativa del pignoramento (in particolare: art. 2471 Cod. Civ.).
Vengono in tal senso specificate due ipotesi: la prima consisterebbe in una applicazione diretta della norma in questione al pegno, pur con i dovuti accorgimenti; la seconda, invece, proporrebbe l’utilizzo di tale norma come «base interpretativa» per la comprensione dei risultati procedimentali del pegno.
La tesi proposta si fonda, in particolare, sull’esame della funzione e degli effetti dei due istituti. Si evidenzia, in proposito, che nella disciplina del pignoramento «è possibile cogliere quella serie di interessi da tutelare ed effetti prossimi alla disciplina del pegno». In particolare, l’Autore ricorda la «destinazione funzionale» del bene al creditore e l’efficacia dell’atto nei confronti della società.
Ai fini del perfezionamento del vincolo sulla partecipazione, l’Autore dà pertanto rilievo non al deposito dell’atto nel Registro delle Imprese, ma alla notifica dell’atto, sulla base della soluzione dell’art. 2471 Cod. Civ..
§38. Francesco Denozza, Incertezza, azione collettiva, esternalità, problemi distributivi: come si forma lo short-termism e come se ne può uscire con l’aiuto degli stakeholders, in Rivista delle società, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 2-3/2021
Il contributo intende esaminare le ragioni della tendenza allo short-termism nell’azione economica, proponendo poi le possibili soluzioni, legate anche a un più marcato ruolo degli stakeholders.
Si evoca, perciò, in primo luogo, un «problema di possibile distorta valutazione dei costi e benefici all’interno di obiettivi e programmi la cui realizzazione si articola in un arco temporale non breve». Tale valutazione può essere alterata da una pluralità di fattori, tra cui il «comportamento di gregge» e l’ «incertezza», relativa sia «all’evoluzione del contesto» sia «alle future condizioni dell’agente».
Nell’ampia ricostruzione del fenomeno si innesta pertanto la ricerca di parametri valutativi dell’azione di breve periodo, parametri non univoci ma anzi caratterizzati da un certo grado di dipendenza dalle circostanze, per esempio le «finalità di volta in volta perseguite» e il «programma elaborato per raggiungerle».
Nel lavoro si sottolinea anche la sensatezza di uno scrutinio degli obiettivi perseguiti, dato che la società può permettersi di «affidare l’allocazione della maggior parte dei suoi investimenti a meccanismi di mercato che valorizzano le scelte individuali» soltanto nel presupposto che la maggioranza di tali scelte si muova verso obiettivi non irrazionali. Da ciò emerge la necessità di misure volte a correggere gli incentivi e altri potenziali fattori che incentivano comportamenti ‘irrazionali’.
Accanto a ciò, l’Autore individua alcuni fondamentali obiettivi che possono essere favoriti da visioni orientate invece al lungo periodo, come la riduzione delle disuguaglianze, il rispetto dei diritti umani, la tutela dell’ambiente.
Appare cioè importante puntare su fattori in grado di produrre un superamento delle tradizionali logiche improntate allo shareholders value: un esempio è rappresentato da possibili «meccanismi istituzionali di attivo coinvolgimento degli stakeholders», come il dialogo tra stakeholders e consigli di amministrazione, anche al fine di identificare con maggior chiarezza il perimetro degli interessi degli stakeholders.
§37. Vincenzo Di Cataldo, Serenella Rossi, Osservazioni in tema di revoca per giusta causa degli amministratori di società di capitali, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 4/2022
Il contributo esamina alcuni interessanti profili attinenti alla revoca per giusta causa degli amministratori di società di capitali. Gli Autori tracciano in primo luogo le linee essenziali della normativa di riferimento, la quale prevede, nelle società per azioni, un’ampia libertà di revoca degli amministratori da parte dell’assemblea, salvo il diritto al risarcimento del danno in favore dell’amministratore che sia stato revocato in assenza di giusta causa.
Passando al profilo ‘contenutistico’ del concetto di giusta causa, il lavoro ricorda come la fattispecie poggi sul «deterioramento del pactum fiduciae» tra soci e amministratore, che allarga l’orizzonte della giusta causa a ragioni ulteriori rispetto a quelle strettamente correlate all’inadempimento dei doveri del mandato. Si avverte dunque, in tal senso, una possibile tensione tra la sfera di oggettività «con cui devono manifestarsi i fatti posti a fondamento della revoca per giusta causa», e la soggettività connaturata all’elemento personalistico del pactum fiduciae.
Appare allora necessario applicare, nell’esame della giusta causa di revoca, un «criterio di ragionevolezza», al fine di «valutare come rilevanti quei fatti» che potrebbero, anche alla luce delle caratteristiche del mandato, «compromettere l’affidamento della società sull’idoneità dell’amministratore a svolgere il suo incarico». La giusta causa andrebbe comunque ancorata «a specifici elementi fattuali, riscontrabili “oggettivamente”, che la società ha l’onere di allegare» come prova della sua fondatezza.
Gli Autori si preoccupano, inoltre, di esaminare due ulteriori profili attinenti alla revoca per giusta causa:
- Il primo profilo riguarda il rapporto tra giusta causa e dissenso della maggioranza sulle scelte gestorie dell’amministratore. Ci si chiede, in particolare, se tale dissenso possa essere qualificato come una giusta causa di revoca. La risposta, attesa la riserva di competenza dell’amministratore in materia di gestione, sembra dover essere negativa, a meno che la società non sia soggetta a direzione e coordinamento ex art. 2497 Cod. Civ., nel qual caso «la decisione dell’amministratore della società eterodiretta di disattendere le (legittime) indicazioni di gestione della controllante può giustificare la decisione della società di revocargli l’incarico». Alcuni dubbi residuano in caso di dissenso su talune decisioni strategiche, eventualità sinteticamente ed efficacemente esaminata dagli Autori.
- Il secondo profilo riguarda, invece, la possibilità che la società, in un eventuale giudizio per il risarcimento del danno all’amministratore revocato, indichi come giusta causa fatti ed elementi ulteriori rispetto a quelli menzionati nella delibera di revoca. Se la giurisprudenza ha tradizionalmente ammesso tale facoltà, invece un recente indirizzo, richiamato dagli Autori, si è espresso in senso opposto. Di questo nuovo orientamento viene però offerta una lettura particolarmente critica, in quanto esso – sviluppatosi in tema di società a responsabilità limitata – sarebbe stato successivamente traslato anche in ambito di società per azioni, senza però che vi fossero «basi normative» o «giustificazioni argomentative».
§36. Mario Stella Richter Jr, Profili attuali dell’amministrazione delle società quotate, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 3/2021
Il problema del “corporate purpose” - l’interesse sociale dell’impresa - si relaziona oggi con una realtà complessa in cui, secondo l’Autore del lavoro qui segnalato, le grandi imprese azionarie non sono più soltanto “le protagoniste dell’economia”, ma lo diventano anche “della politica”, con una significativa ricaduta in termini di crescita del “potere” e della “discrezionalità” dei soggetti che le amministrano.
In tale scenario, la Corporate Social Responsibility sembra dunque ampliare sia i propri confini sia la nozione stessa di interesse sociale, con le grandi imprese globali chiamate a occuparsi di alcuni interessi di carattere generale. A tal proposito, commenta l’Autore, il recente Codice di Corporate Governance pone al centro del discorso il “successo sostenibile” - quello, cioè, fondato non soltanto sulla creazione di valore nel lungo termine per gli azionisti, ma anche sul rispetto degli interessi degli altri stakeholder.
Il contributo si interroga dunque sulle modalità con cui è possibile dare concretezza alle formule della CSR nei comportamenti dell’impresa. L’Autore individua due esempi: da un lato, le decisioni degli organi amministrativi, dall’altro le modificazione statutarie. Queste ultime sembrano dotate di maggiore “cogenza” ed “effetto promozionale”.
Quali che siano le formule con cui il concetto di successo sostenibile è inserito nello statuto, comunque, esse non sembrano di per sé sole “idonee a tradursi in regole operative e meccanismi precettivi”. Anzi, come argomentato dall’Autore, il principio in commento può riempirsi di significato soltanto se “declinato, specificato e adeguatamente circostanziato” - ad esempio agganciandosi agli “elementi ideali dell’atto costitutivo”.
La già citata diversificazione degli interessi in gioco nell’agire societario richiama inoltre alcuni temi ulteriori, quali la funzione - propria dell’organo amministrativo - di composizione di questa stessa pluralità di interessi, nonché la “composizione diversificata” del C.d.A., argomenti puntualmente affrontati. La complessità di cui si discute, infine, sembra riverberarsi anche sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo, che necessita di un “dialogo, aperto e costante”, tra soci e amministratori, “in materia di scelte su sistemi e assetti organizzativi della società”.
§ 35. Valentina Baroncini, Sulla prorogabilità in via giudiziale del termine per l’esecuzione del concordato preventivo, in Il Fallimento, IPSOA, n. 3/2021
Il commento si sofferma sulla possibilità che il termine di esecuzione del concordato preventivo omologato venga prorogato giudizialmente. Un’ipotesi che viene subito esclusa, in accordo a un recente provvedimento della Corte d’Appello dell’Aquila.
La fattispecie apre ad ulteriori considerazioni, oltre che sulle modalità temporali di esecuzione del concordato, anche sulla proroga ex lege prevista dal Decreto Liquidità per i concordati il cui adempimento scade tra il 23 febbraio 2020 e il 31 dicembre 2021. Le peculiarità di tale proroga automatica, di durata semestrale, escludono peraltro che essa possa essere negata o che possa essere oggetto di discrezionalità da parte del giudice.
Da ultimo, il lavoro esamina alcune ipotesi di proroga di fatto dei termini di adempimento già scaduti, le quali emergono dal provvedimento commentato.
§34. Paolo Montalenti, Il codice della crisi d’impresa e della insolvenza: assetti organizzativi adeguati, rilevazione della crisi, procedure di allerta nel quadro generale della riforma, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 5/2020
Il saggio offre una prima lettura critica delle principali novità del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza. L’Autore evidenzia alcuni profili di continuità del nuovo codice con i “principi di correttezza gestoria” che hanno caratterizzato l’evoluzione della disciplina dell’impresa.
Molti sono però i profili di discontinuità con la legge fallimentare, individuabili innanzitutto sul piano delle definizioni e degli istituti cardine della riforma (quali le procedure di allerta e di composizione assistita della crisi), accuratamente esaminati.
Un focus specifico è poi sui temi relativi agli assetti organizzativi adeguati e alla prevenzione della crisi, con la rilevazione tempestiva della probabilità dell’insolvenza a rappresentare il fulcro della riforma.
L’Autore passa dunque criticamente in rassegna sia il rapporto tra gli assetti organizzativi e la business judgement rule - ambito in cui emerge la necessità di “separare concettualmente” le scelte di organizzazione e gli assetti organizzativi - sia gli strumenti di allerta, i procedimenti di composizione e il concetto stesso di crisi, tra probabilità e possibilità dell’insolvenza.
Al netto dei profili critici, si evidenzia nel contributo un percorso di progressione verso un “capitalismo tendenzialmente razionale”, che si ispira “alla prospettiva long term e alla corporate social responsibility” volute dalla direttiva Shareholders’ Rights II, di cui “la prevenzione della crisi è un elemento essenziale”.
§33. Manuela Tola, Le società di capitali nell’emergenza, in Banca Borsa Titoli di credito, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 4/2020
Il contributo esamina i profili critici della deroga, contenuta nel Decreto Liquidità, alla disciplina delle perdite sul capitale sociale.
Una soluzione legislativa temporanea, animata dalla finalità di limitare l’impatto dell’emergenza Covid-19 sulle imprese virtuose, e che tuttavia, avverte l’Autrice, potrebbe creare distorsioni, tanto più se accompagnata da un intervento in deroga anche ai principi di redazione del bilancio.
La disciplina, come ampiamente illustrato nel lavoro, prevede tra l’altro che fino al 31 dicembre 2020 non si applichino le disposizioni in tema di riduzione del capitale per perdite, di riduzione al di sotto del limite legale e di scioglimento della società per riduzione o perdita del capitale.
In tale contesto, le perplessità attengono sia all’efficacia della deroga per la sopravvivenza delle imprese sia alla sua incidenza su altri interessi in gioco (tra cui quelli dei creditori sociali, attuali e potenziali). Il rischio, con tutte le conseguenze del caso, è che la stima di “variabili rilevanti” (l’Autrice cita, tra le altre, l’accesso alle risorse finanziarie e la perdita di contratti) sia “temporaneamente sostituita da una prospettiva di continuità presunta e artificiosa”, una “artefatta continuità nominale”. Inoltre, l’ “equivoca formulazione letterale” della norma potrebbe dare adito ad utilizzi non in linea con lo spirito della deroga.
Una normativa che, dunque, sembrerebbe poter provocare uno scollamento dalla realtà che potrebbe ritenersi in contrasto con i dettami europei (Direttiva 2013/34/UE), per di più con la preoccupazione che questo stato di cose (le deroghe) possa prestarsi, in futuro, a “generare il vizio dell’abuso”.
§32. Amedeo Bassi, La par condicio creditorum nella liquidazione delle società, in Il Fallimento, IPSOA, n. 11/2020
L’applicazione della par condicio creditorum nella liquidazione, tema ampiamente dibattuto, è qui illustrato con un distinguo tra capienza e incapienza patrimoniale della società.
L’Autore dà brevemente conto delle opinioni della giurisprudenza e della dottrina, e in particolare della tesi, espressa dalla Cassazione, secondo la quale “il liquidatore di una società, qualora il patrimonio sociale sia insufficiente per pagare integralmente tutti i debiti, deve rispettare l’ordine delle cause di prelazione e la par condicio creditorum”.
Sembra allora che la questione riguardi principalmente il rapporto tra liquidazione della società e incapienza del patrimonio, condizione quest’ultima da cui appunto deriverebbe l’obbligo di par condicio creditorum. In questo caso, se il liquidatore non applicasse la par condicio e non rispettasse l’ordine di prelazione, diverrebbe responsabile verso quei creditori risultati insoddisfatti a fronte del pagamento di “creditori di rango inferiore”.
Se fin qui il discorso appare piuttosto lineare, l’Autore esprime tuttavia alcuni importanti dubbi sulla possibilità che il liquidatore possa effettivamente far ciò, e questo perché nella liquidazione mancherebbero le precondizioni tipiche della par condicio creditorum (divieto di azioni esecutive, scadenza anticipata di tutti i debiti, differimento dei pagamenti, presenza del giudice).
Le opzioni a sua disposizione sarebbero dunque o proporre ai creditori un piano di riparto (con valore di accordo stragiudiziale), oppure chiedere il fallimento, dato che la liquidazione, pur basandosi su comunione di interessi e collaborazione, “non esclude il ricorso a vere e proprie procedure concorsuali quando quel vincolo da solo non sia in grado di garantire il risultato dell’ordinato svolgimento della liquidazione”.
Ipotizzando una capienza patrimoniale della società, l’Autore si sofferma invece sulla rilevanza del ritardo dell’adempimento della liquidazione. Coerentemente con le finalità della liquidazione, sembra che i creditori debbano tollerare tale ritardo, addirittura al punto da consentire al liquidatore di pagare innanzitutto i “creditori strategici”. Il limite è costituito dal “ritardo spropositato”, non accettabile in virtù del favor per un ordinato svolgimento della liquidazione.
§31. Vincenzo Salafia, Determinazione del valore della partecipazione nel recesso dei soci dalle società di capitali, in Le Società, IPSOA, n. 10/2020
Il lavoro confronta le norme sulla determinazione del valore delle partecipazioni in caso di recesso dalla s.p.a. e dalla s.r.l., esprimendo un favor verso la disciplina della prima, che sembra porre il socio nella condizione di compiere una scelta più consapevole.
L’Autore offre una sintetica ma efficace ricostruzione degli artt. 2437 e 2473 c.c., riportando, per la s.p.a., i motivi e le procedure previste per il recesso, il ruolo degli amministratori e il coinvolgimento del collegio sindacale, nonché i parametri in base ai quali viene determinato il valore della partecipazione del socio (essenzialmente: la consistenza patrimoniale della società, le sue prospettive reddituali e il valore di mercato delle azioni).
Per l’Autore riveste una particolare importanza il fatto che al socio di s.p.a. debba essere comunicato il valore della propria partecipazione nei 15 giorni precedenti alla data fissata per l’assemblea che legittima il recesso. È proprio tale elemento, infatti, a garantire al socio di s.p.a. una valutazione più consapevole.
Date queste ragioni, il contributo evidenzia in conclusione che non sembrano esserci ostacoli alla scelta dei soci costituenti di s.r.l. di optare statutariamente, sul punto, per la disciplina delle s.p.a.
§30. Maurizio Onza, L’ “accesso” alla società per azioni ed alla società a responsabilità limitata, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 47.4/2020
Il contributo prende in esame l’evoluzione dell’accesso alle forme collettive di produzione di ricchezza, senza trascurare né la funzione giuridica delle società né il loro percorso storico.
L’Autore conduce dunque un’indagine che dalle «piccole comunità autoproducenti» (citando Ascarelli) giunge all’economia della produzione e del consumo in senso moderno.
Il fenomeno giuridico, che già il Legislatore del Codice Civile auspicava corrispondente a quello economico, è esaminato da differenti prospettive. Emerge un modello societario che oscilla tra «libertà e autorità», adeguandosi nel tempo prima all’economia industriale e poi a quella finanziaria.
L’interessante digressione storica, che identifica quel nucleo fondamentale di caratteristiche già presente nelle società anonime (ad es., circolazione delle partecipazioni e stabile destinazione delle risorse «ad una intrapresa»), fa da preludio alla delineazione di una realtà in cui «ingenti intraprese stabili» si legano a una «compagine sociale instabile», la moderna s.p.a.
L’evoluzione successiva, specialmente negli anni recenti, accanto all’ulteriore “spersonalizzazione” della s.p.a. ha poi messo in risalto un particolare grado di diversificazione della «piccola anonima», la s.r.l.
Tra società a capitale ridotto, semplici, start-up innovative, si sono avuti esperimenti e deroghe al diritto societario, tali da far pensare a un nuova concezione del rapporto tra società e complessi produttivi, anche nel modello di accesso alla produzione della ricchezza, in un contesto in cui il «credito» della società passa in misura sempre maggiore per le «idee».
§29. Marco Sagliocca, Azioni a voto plurimo nelle società quotate: occasione persa o soltanto rimandata?, in Le Società, IPSOA, n. 7/2020
Il contributo offre alcuni spunti di riflessione a sostegno dell’introduzione delle azioni a voto plurimo nelle società quotate: una novità legislativa presente nella bozza del Decreto Rilancio, ma eliminata prima della definitiva approvazione.
Come ben chiarito dall’Autore, nel raggiungere un «equilibrio tra potenziamento del voto ed esigenze di tutela delle minoranze azionarie», la primaria finalità dell’istituto in commento sarebbe stata quella di proteggere il mercato borsistico italiano dalla fuga delle società quotate verso ordinamenti che consentono l’emissione di azioni con voto plurimo.
Questo «efficace strumento di corporale governance», che costituirebbe una deroga alla regola “un’azione un voto”, trova peraltro un suo (parziale) antecedente nel Decreto Competitività del 2014, il quale ha previsto le azioni a voto plurimo limitatamente alle società chiuse, mentre per le società aperte ha disposto, tra l’altro, l’introduzione di azioni a voto maggiorato.
Come esaustivamente spiegato dall’Autore, tuttavia, queste ultime differiscono dalle azioni a voto plurimo per alcune importanti caratteristiche. Nelle azioni a voto maggiorato, infatti, la maggiorazione si lega non all’azione, ma alla persona dell’azionista, come «meccanismo premiale» della sua fedeltà.
Tuttavia, il dato empirico evidenzia che, contrariamente all’obiettivo, l’enfasi personalistica del voto maggiorato ha finito col penalizzare gli azionisti di minoranza, garantendo «ai soci di controllo un incremento della loro influenza in sede assembleare».
Viceversa, con le azioni a voto plurimo, in cui il voto si lega all’azione e non all’azionista, la bozza del Decreto Rilancio introduceva un bilanciamento tra maggioranze e minoranze assembleari. In primo luogo, spiega l’Autore, gli azionisti di minoranza sarebbero stati tutelati attraverso il noto meccanismo del “whitewash”. In secondo luogo, i soci contrari all’emissione di azioni a voto plurimo avrebbero potuto ricorrere al diritto di recesso.
Altra differenza tra azioni a voto maggiorato e a voto plurimo risiede poi nel numero di voti massimi concessi: due nel primo caso, tre nel secondo. Le azioni a voto plurimo, inoltre, avrebbero potuto avere in assemblea carattere generale o relativo a soli argomenti particolari, con possibilità inoltre di subordinare il voto plurimo a condizione non meramente potestativa.
L’analisi dell’auspicata introduzione delle azioni a voto plurimo per le quotate non dimentica poi i potenziali usi opportunistici delle azioni a voto plurimo; a questo proposito, alcuni accorgimenti discussi nel contributo riguardano la necessaria competenza dell’assemblea in materia di aumento di capitale con emissione di azioni a voto plurimo e l’applicazione degli strumenti di garanzia previsti dall’art 2441 c.c. in caso di limitazione o esclusione del diritto di opzione.
§ 28. Alberto Crivelli, La sospensione della vendita e delle operazioni di vendita nel fallimento, in Il fallimento, IPSOA, n. 6/2020
Prendendo le mosse dalla vicenda di una procedura fallimentare riguardante una vendita telematica asincrona, il lavoro svolge una ricostruzione dell’istituto della sospensione della vendita nel fallimento, operando una distinzione tra le ipotesi previste dagli artt. 107, c. 4; 108, c. 1, parte 1; e 108, c. 1, parte 2, della Legge Fallimentare.
In relazione a ciascun istituto l’Autore individua la competenza (del curatore fallimentare nell’ipotesi del 107, del giudice delegato nelle due ipotesi del 108) e, soprattutto, i presupposti applicativi, i limiti e le formalità richieste.
Sul piano dei presupposti, ad esempio, emerge la differenza tra la sospensione della vendita di cui all’art. 108, c.1, parte 1, la quale richiede la presenza di gravi e giustificati motivi, e quella di cui all’art. 108, c. 1, parte 2, che richiede che il prezzo offerto sia notevolmente inferiore a quello ritenuto giusto, tenuto conto delle condizioni di mercato.
In entrambi i casi è comunque necessaria l’istanza del fallito, del comitato dei creditori o degli altri interessati, che l’Autore identifica, tra l’altro, nei “creditori ipotecari, pignoratizi, sequestranti, parte dei giudizi la cui domanda sia trascritta sul bene, terzi interessati all’acquisto, titolari di diritti minori sul bene”. Si aggiunge, nell’ipotesi del 108, c. 1, parte 2, la quale peraltro è considerabile come “una sostanziale revoca dell’aggiudicazione”, l’esistenza di un termine perentorio di 10 giorni per la presentazione dell’istanza di sospensione, termine decorrente dal deposito della documentazione della vendita presso la cancelleria. Sempre relativamente a quest’ultima ipotesi, peraltro, l’Autore dedica una riflessione al concetto di circostanze sopravvenute o ignote che rendano il prezzo offerto notevolmente inferiore a quello giusto.
Nel lavoro, infine, c’è spazio anche per il tema della sospensione della vendita nel concordato preventivo, un istituto che assume una particolare rilevanza in quanto “l’esecuzione, e quindi la cessione, nel concordato preventivo sono curate di norma dal liquidatore o, in caso di concordato in continuità, dall’imprenditore”, lasciando così ben pochi altri strumenti di tutela.
§ 27. Giuseppe Colombo, Deliberazione assembleare e diritto alla tempestiva e preventiva informazione del socio di s.r.l. sugli argomenti da trattare, in Le Società, IPSOA, n. 6/2020
Commentando un’ordinanza della Cassazione, il lavoro approfondisce in primo luogo le conseguenze della mancata convocazione assembleare del socio di s.r.l.. Da un punto di vista sistematico, tali conseguenze, legate all’assenza assoluta di informazioni, appaiono consistere nella nullità della decisione assembleare.
Ma il ragionamento va oltre, e interessa anche l’assenza di una informazione preventiva ed effettiva in merito all’ordine del giorno. Sul punto l’Autore ricorda che la Cassazione, muovendo dalla centralità del socio nella s.r.l., arriva a far derivare la nullità della delibera anche da tale circostanza. Per risultare effettiva, l’informazione dovrebbe fornire indicazioni chiare e specifiche sugli argomenti all’ordine del giorno, in maniera da consentire al socio una pre-valutazione e, successivamente, una scelta consapevole in sede decisionale. Nel bilanciamento tra certezza del funzionamento deliberativo e diritto a una piena informazione del socio, sembra dunque prevalere il secondo.
Tuttavia il principio non appare applicabile a tutte le tipologie di s.r.l.: non sfugge infatti all’Autore l’ “ibridazione” avvenuta nei modelli societari, tale per esempio da lasciar supporre la prevalenza dell’elemento capitalistico su quello personalistico nella s.r.l. PMI; ciò comporterebbe, in effetti, una differente modulazione delle conseguenze dell’assenza assoluta di informazioni in funzione del tipo concreto di s.r.l..
§ 26. Marco Saverio Spolidoro, Fallimento della società scissa nella scissione totale (con uno sguardo alla fusione), in Le Società, IPSOA, n. 6/2020
Prendendo le mosse da una sentenza della Cassazione, il lavoro qui segnalato tenta di costruire un avvicinamento degli istituti della fusione e della scissione societarie quanto alla possibilità che intervenga una procedura fallimentare tanto sulla società incorporata (nella fusione), quanto sulla società scissa (nella scissione).
Pertanto, alla teoria secondo la quale l’assimilazione delle due tipologie di operazioni societarie non sarebbe possibile sotto il profilo concorsuale, in quanto la fusione porterebbe ad un’aggregazione patrimoniale, mentre la scissione totale porterebbe a una disaggregazione, l’Autore sembra contrapporre una differente valutazione della funzione economica delle due operazioni, in quanto, ad esempio “la scissione può anche essere aggregativa ed è comunque un conferimento”.
Avvicinando i due istituti, dunque, il contributo si sofferma in particolare sul possibile fallimento della società incorporata in una fusione. Rileva sul punto il concetto di continuazione dell’attività: attribuirla nel solo caso della fusione e non anche in quello della scissione, con la conseguenza che solo nel secondo caso si potrebbe applicare l’art. 10 L. Fall. (e il nuovo 33 CCII), significa basare il ragionamento su una differenza tra i due istituti che invece non sembra sussistere. Al punto che, sono queste le conclusioni, “se non vi è alcuna ragione per distinguere, o si dice che possono fallire anche le società estinte per fusione, oppure si nega che possano fallire le società che si estinguono per scissione totale”.
§25. Gian Domenico Mosco, Roboboard. L'intelligenza artificiale nei consigli di amministrazione, in Analisi Giuridica dell'Economia, Il Mulino, Fascicolo 1/2019
Muovendo dai più recenti sviluppi tecnologici in tema di AI, e dal rapporto che lega algoritmi e diritto societario, il lavoro intende indagare quanto e come l’intelligenza artificiale possa influenzare il decision making degli amministratori di società. L’Autore pone innanzitutto una distinzione tra le diverse tipologie di AI (Assisted, Augmented e Autonomous), focalizzando l’attenzione sulle prime due tipologie, cioè quelle che sostengono, senza sostituirlo, l’agire umano: un livello che, di fatto, è già presente nella realtà societaria. È infatti prematuro – sia per la tecnologia, sia per il diritto – ipotizzare la presenza di un algoritmo come vero e proprio componente del board. Vi si oppongono, ad esempio, le basilari regole di corporate governance, che prevedono requisiti soggettivi, doveri e responsabilità degli amministratori.
Con queste premesse, il lavoro si concentra dunque innanzitutto sul chiarire cosa sia l’AI, identificandola, secondo una nota definizione, in quella particolare specie di algoritmi «capaci attraverso l’analisi di grandi quantità di dati di fare cose che … richiederebbero intelligenza se fatte da persone». Algoritmi che, in realtà, presentano capacità di calcolo e di immagazzinamento e analisi dei dati superiori all’uomo. È questa, come ricorda l’Autore, una definizione simile a quella adottata dalla Commissione UE nella sua Comunicazione sull’AI per l’Europa, nella quale i sistemi di machine learning sono considerati «intelligenti» proprio per la loro capacità di adattamento, cioè di risolvere – sulla base dei dati e delle informazioni in loro possesso – problemi nuovi e da loro non già conosciuti.
Tuttavia, pur sull’onda di un’evoluzione tecnologica positiva, l’Autore mette in guardia il lettore dalle esternalità negative legate all’AI. Queste si presentano, ad esempio, nelle vesti delle possibili discriminazioni che il decision making automatizzato potrebbe realizzare, per il fatto di basarsi esclusivamente sull’analisi di dati preesistenti (come nel caso do algoritmi operanti nel campo della sicurezza che si basino e perpetrino pregiudizi razziali). A ciò si aggiunge poi un’altra considerazione: il percorso che può aver condotto l’AI ad assumere una determinata scelta, infatti, non sempre risulta chiaro e conoscibile passaggio per passaggio.
Dunque, per quanto l’ambizione sia quella di costruire un’AI basata su valori come libertà, uguaglianza e democrazia, con un processo decisionale trasparente, non discriminatorio e improntato alla privacy, ad oggi l’intelligenza artificiale manca ancora «di una vera e propria identità», di una personalità, cioè, che le fornisca – nelle parole dell’Autore – intelligenza emotiva, etica e fantasia.
Dalle suddette implicazioni di natura tecnologica ancor prima che giuridica deriva dunque la necessità di circoscrivere con precisione il ruolo che l’AI può assumere all’interno del board societario. L’esperienza, sul punto, prova che tale tecnologia si sta oggi diffondendo in particolare nei settori ad alto valore tecnologico (es. piattaforme e fintech). Detto che l’AI deve essere supporto, e non sostituto, dell’amministratore, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale dovrebbe mirare in particolare a far evolvere l’efficienza del modello gestorio, non soltanto mediante analisi dei dati, ma anche sulla base di modelli predittivi. L’AI può quindi essere impiegata, ad esempio, per liberare il board da talune incombenze, quali l’analisi dei «flussi informativi» e il «monitoraggio normativo e gestionale», abilitando un modello di amministrazione più snello e innovativo.
Proprio su questo punto, peraltro, l’Autore rileva l’importanza della tecnologia blockchain a fini di trasparenza e certezza dei procedimenti (es. contabilità e libri sociali). Non solo. In prospettiva, la blockchain potrebbe dare luogo a una vera e propria governance decentralizzata, che includa cioè una più attiva partecipazione dei dipendenti (mediante voto in rete) alla definizione delle strategie societarie. Questa ipotesi, tuttavia, non esclude rischi e implicherebbe forse anche un riposizionamento delle autorità di vigilanza.
Il saggio si sofferma poi sul tema dell’AI nell’ambito degli assetti societari, dunque sul rapporto tra AI e regole di corporate governance. In questo senso, l’Autore rileva che i principi di corretta gestione societaria si applicano anche al ricorso degli amministratori agli algoritmi. Ne discende, ad esempio, che gli amministratori dovrebbero anzitutto comprendere il profilo tecnologico della questione (almeno nei suoi aspetti di base), per poter poi individuare i compiti da affidare all’AI e le procedure necessarie ad assicurare che la società mantenga sempre il dovuto grado di controllo sulla tecnologia impiegata nei processi decisionali. Questa considerazione, unita alla necessità che il soggetto che riceve una delega di poteri sia un soggetto di diritto (spesso, specificamente, una persona fisica), esclude che si possano ipotizzare deleghe di poteri amministrativi in favore dei sistemi di intelligenza artificiale.
Nonostante ciò, il ricorso all’AI può rivelarsi fondamentale al fine di porre in essere un’attività di decision making pienamente informata, come tale protetta ai sensi della business judgement rule. I rilievi che precedono aprono però, nell’economia del lavoro, un altro scenario: cosa accade se l’amministratore si discosta dalle valutazioni effettuate dall’AI? In questo caso, si legge nelle parole dell’Autore, un elemento fondamentale va ricercato nella tracciabilità, nell’accountability del sistema di intelligenza artificiale, che agevola «il mantenimento dei margini di discrezionalità degli amministratori» e li protegge da conseguenze negative in caso di un loro rifiuto nel seguire quanto suggerito dall’algoritmo. È dunque la chiarezza del processo decisionale (assetti adeguati e verificabilità) che rende più agevole porre gli amministratori al riparo da responsabilità.
In conclusione, dunque, secondo l’Autore i sistemi algoritmici sono destinati a ricoprire un ruolo sempre più significativo all’interno dei board societari. E tuttavia il loro uso richiede, intanto, competenze tecniche finalizzate a comprenderne il funzionamento (con un’influenza sulla composizione stessa del board); in secondo luogo, bisogna tenere conto che l’impiego dell’AI resta comunque subordinato ai principi della corporate governance: occuparsi dell’AI rientra dunque tra i compiti degli amministratori, i quali devono pertanto predisporre una «politica di ricorso all’AI», valutandone ruoli e rischi. Un ricorso che da un lato non può essere obbligatorio, né può vincolare gli amministratori a quanto determinato dalla macchina, ma che dall’altro, in alcuni casi, risulta effettivamente necessario nell’agire informato del board e nella conseguente protezione degli amministratori secondo la business judgement rule.
Un maggior ricorso ai sistemi di AI, seppur razionale, responsabile e controllato, potrà agevolare l'evoluzione del board verso modelli meno numerosi e più votati alla gestione piuttosto che al monitoraggio.
§ 24. Angelo F. Nicotra, L’oggetto sociale nelle start-up innovative, in Banca Borsa Titoli di Credito, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 2/2020
Partendo dal dato normativo, il contributo svolge una riflessione sui requisiti delle start-up innovative, soffermandosi sull'oggetto sociale - consistente nell'esclusiva o prevalente attività di sviluppo, produzione e commercializzazione di prodotti o servizi innovativi ad alto tasso tecnologico - e sulle ricadute che esso può avere sulla struttura e sull'organizzazione della società.
Sul punto, l'Autore ricorda in primo luogo le ragioni normative dietro alla disciplina di favore assicurata alle start-up innovative, ravvisabili nel raggiungimento di obiettivi quali la crescita del tasso di innovazione e della competitività imprenditoriale. In questo senso, l'oggetto sociale è un appiglio cui ancorare l'innovazione apportata in concreto dall'impresa, oltre che un riferimento per gli stakeholders. Il lavoro indaga dunque i caratteri dell'innovatività, riferibile al prodotto o servizio, e dell'alto tasso tecnologico, riferibile alla R&S e alla titolarità di privative industriali. La combinazione di tali fattori porta dunque la start-up (e il suo oggetto sociale) a «coniugare in concreto l'innovatività del prodotto o del servizio offerto con l'alto valore tecnologico del processo produttivo».
Vale la pena di notare, infine, che nella ricostruzione offerta dall’Autore l'innovatività appare come un elemento in cui risiede una necessaria componente di rischio, derivante dall'incertezza in merito al risultato finale e al ritorno economico dell'attività.
§ 23. Franco Michelotti, I soci illimitatamente responsabili e le procedure di composizione della crisi da sovraindebitamento, in Il Fallimento, IPSOA, n. 3/2020
Commentando il tema dell’ammissibilità del socio illimitatamente responsabile alle procedure di sovraindebitamento, il contributo dà ampia evidenza delle contrapposte teorie sviluppatesi nel dibattito. Sul punto, l’Autore ritiene innanzitutto superata la tesi che, facendo leva sulla «fallibilità per ripercussione» del socio con responsabilità illimitata, ne esclude l’accesso alle dette procedure. Appaiono invece preferibili le tesi, puntualmente illustrate, che lo ammettono. A riprova di ciò, d’altra parte, vale anche il riferimento contenuto nella Legge Delega 155/2017, quale «voluntas legis» che va in senso favorevole all’ammissione in parola.
Appurato quindi che il socio illimitatamente responsabile può accedere all’accordo di composizione della crisi e alla liquidazione del patrimonio, il lavoro muove avanti, valutando la compatibilità con il piano del consumatore, sostanzialmente dipendente dalla natura di persona fisica del socio e dell’origine dell’indebitamento.
La riflessione si sposta poi su alcuni ulteriori dubbi relativi alle «interferenze» e al «coordinamento» tra la procedura riguardante il socio illimitatamente responsabile e quella relativa invece alla società. In chiusura, l’Autore manifesta con chiarezza le problematiche tutt’ora esistenti nella disciplina, a cui tuttavia «potranno porre rimedio i decreti correttivi ed integrativi» del Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
§ 22. Gian Domenico Mosco, Il riparto delle competenze gestionali nella S.r.l. dopo il Codice della crisi, in Rivista delle società, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 5-6/2019
Il lavoro si inserisce nell’ampio dibattito stimolato dalla nuova «centralità», nella s.r.l., della figura dell’amministratore. L’Autore, pur sottolineando la scarsa portata sistematica della novella introdotta dal Codice della crisi, ne elogia l’intento di fondo, cioè lo sprone all’ «efficienza» e alla «managerialità» della s.r.l., soprattutto con riferimento agli assetti organizzativi adeguati e alla rilevazione tempestiva della crisi d’impresa.
Emerge dunque la necessità di contestualizzare il nuovo art. 2475, co. 1, del Codice Civile, sospeso tra la tradizionale «elasticità» del modello s.r.l. e la novità dell’attribuzione in via esclusiva agli amministratori della gestione dell’impresa. Una scelta legislativa, quest’ultima, che – come dettagliatamente spiegato dall’Autore – ha forse una «funzione più programmatica che reale», ma che tuttavia contribuisce a restringere il quadro delle competenze potenziali dei soci e a sottrarre loro le competenze specificamente assegnate agli amministratori. Ad ogni modo, la disciplina in parola presenta ancora delle ombre, e infatti il contributo auspica un nuovo intervento capace di dare maggiore chiarezza al riparto di competenze di un modello societario, quello della s.r.l., che certo non può definirsi «una piccola s.p.a.», ma che al contempo ribadisce con forza il ruolo centrale degli amministratori.
§ 21. Grazia Maria D’Aiello, Finanziamenti anomali dei soci: postergazione legale e concorso dei creditori, in Il Fallimento, IPSOA, n. 1/2020
Commentando una recente sentenza della Suprema Corte, il contributo qui segnalato offre la propria lettura della postergazione del finanziamento soci di cui all’art. 2467 del Codice Civile.
L’Autrice, pur segnalando in apertura la «vocazione concorsuale» di tale istituto, si focalizza piuttosto sull’applicazione della postergazione al di fuori delle procedure concorsuali. In tal senso, il lavoro dà conto di due differenti orientamenti: il primo, definito «tesi sostanzialista», vorrebbe la postergazione come «condizione di temporanea inesigibilità del credito del socio finanziatore; il secondo, definito, «tesi processualistica», la vedrebbe invece quale semplice fattore operante «sul tempo dell’adempimento».
L’Autrice evidenzia quindi le problematiche insite nella tesi sostanzialista, laddove essa risulta eccessivamente punitiva delle condizioni di rimborso del socio finanziatore, anche rispetto alla disciplina dei finanziamenti ponte e della ristrutturazione societaria, potendo così agire, a contrario, da meccanismo incentivante di una forzata apertura di procedure concorsuali.
La lettura così offerta risulta d’altra parte influenzata dalle riflessioni circa la natura giuridica della postergazione, vista appunto non quale condizione sospensiva del credito postergato, ma quale semplice ‘arretramento’ dei creditori postergati rispetto agli altri creditori. Ne deriva, fra l’altro, l’ammissibilità senza riserve al passivo dei crediti postergati e la legittimazione attiva del creditore postergato nell’apertura della procedura concorsuale, anche in considerazione del fatto che tale tipologia di crediti concorre a formare l’indebitamento e lo stato di insolvenza della società.
§ 20. Michele Mozzarelli, L’Equity Crowdfunding in Italia. Dati empirici, rischi e strategie, in Banca Borsa Titoli di Credito, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 5/2019
L’equity crowdfunding (ECF) è notoriamente una forma di finanziamento di start-up innovative e PMI capace di colmare il «funding gap» dovuto agli alti costi del credito bancario e alla carenza nostrana di Angel Investors e di Venture Capitalists.
Partendo dalla prospettiva appena considerata, il lavoro in commento offre una panoramica di rischi e opportunità dell’ECF, tenendo conto soprattutto della posizione dei potenziali investitori, quei «family, friends, fools» che tradizionalmente rappresentano le categorie di investitori non professionali disposti a credere in queste tipologie di progetto. Emerge quindi, in prima battuta, la relazione tra “offerente” ed “investitore”, una relazione mediata dal “portale”, cioè dalla piattaforma digitale che abilita l’aggregazione e l’incontro di domanda e offerta. E proprio un corretto uso degli strumenti digitali, sottolinea l’Autore, potrebbe essere la chiave per ridurre i rischi tipici degli ECF, fra tutti incertezza dell’investimento e asimmetria informativa.
Inoltre, se l’obiettivo è «la costruzione di un mercato efficiente che garantisca uno stabile finanziamento alle PMI più promettenti», sembra necessario aggiornare anche l’assetto regolatorio dell’ECF, un «cantiere aperto» che può svolgere il ruolo di catalizzatore di fondi verso le start-up. L’approccio correttivo all’asimmetria informativa, che ha finora contato principalmente su disclosure del progetto da finanziare e avvertenze sui rischi degli investimenti, potrebbe secondo l’Autore muoversi anche in altre direzioni, prime fra tutte un più ampio ruolo affidato al gestore del portale e un più attivo ruolo dell’investitore stesso, o un più agevole sistema per far emergere l’interesse verso il singolo progetto da parte di investitori professionali o di investitori non professionali ma dotati di specifiche conoscenze rilevanti.
Gli accorgimenti appena citati, pensati soprattutto per tutelare più robustamente l’investitore non professionale, finirebbero per giovare alla maturità e all’affidabilità generale del sistema crowdfunding, una fra le più interessanti forme di finanziamento in grado di «ovviare alla strutturale assenza nel nostro Paese di investitori professionali dedicati alle giovani imprese innovative».
§ 19. Marco Sagliocca, Recesso dai patti parasociali in caso di adesione all’OPA, in Rivista delle società, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 2-3/2019
Prendendo spunto da una recente vicenda giunta all’attenzione di un tribunale italiano, il contributo intende fare chiarezza sulla facoltà di recesso da un patto parasociale in pendenza di un’offerta pubblica di acquisto.
La normativa di riferimento (art. 123 t.u.f.) merita, secondo l’Autore, un approfondimento sia sul piano delle tipologie di OPA presupposto del recesso, sia sull’estensione della facoltà di recesso in capo al singolo azionista.
Al netto dei riferimenti giurisprudenziali, il lavoro indaga quindi i limiti letterali e sistematici della costruzione normativa in oggetto, indicandone la ratio nel riacquisto dell’autonomia propria del socio sindacato, quando si sia in presenza di un’OPA. E allora, se l’obiettivo è tutelare la stabilità del controllo in un mercato contendibile (il mercato imprenditoriale), da un lato le medesime garanzie devono necessariamente essere applicate sia all’offerta successiva obbligatoria totalitaria sia all’offerta preventiva volontaria totalitaria; dall’altro, all’azionista deve essere consentito recedere integralmente dal sindacato anche in caso di adesione solo parziale all’OPA. L’elemento dirimente è in tal senso il quantum di azioni conferite in OPA, che deve essere indice della volontà dell’azionista di favorire il nuovo gruppo di controllo.
§ 18. Angelo Busani, Davide Corsico, Il “punto g)” del recesso (ovvero: quando c’è modifica dei “diritti di partecipazione” del socio di S.p.A.), in Le Società, IPSOA, n. 8-9/2019
L’art. 2437, c.1 lett. g) del Codice Civile disciplina, come noto, il diritto di recesso per i soci di s.p.a. che «non hanno concorso alle deliberazioni riguardanti […] le modificazioni dello statuto concernenti i diritti di voto o di partecipazione».
Stante l’affermazione della regola generale (valida per i soci assenti, dissenzienti ed astenuti), il lavoro qui segnalato analizza una recente sentenza della Suprema Corte. Oggetto della sentenza è il diritto di recesso a seguito di una modifica allo statuto che dispone «la destinazione di una parte degli utili alla formazione di una riserva di patrimonio netto». Il contributo riflette quindi sui limiti di applicabilità dell’art. 2437 tenendo in considerazione due domande: a) quali, tra i diritti del socio, possono considerarsi ‘diritti di partecipazione’? b) quali modificazioni dello statuto giustificano il recesso del socio?
Le due domande richiedono una riflessione di carattere organico, dato che l’una influenza l’altra nella determinazione della legittimità del recesso. Rispondendo alla prima, gli Autori ricordano che per ‘diritti di partecipazione’ devono intendersi quei diritti prettamente patrimoniali riguardanti la partecipazione agli utili, e non anche i diritti amministrativi del socio differenti dal diritto di voto.
Per quanto riguarda la seconda domanda, l’alternativa posta dagli Autori è tra modificazioni statutarie dirette e indirette: le prime si sostanziano in delibere che abbiano ad oggetto la modifica di un diritto di voto o di partecipazione, le seconde in delibere che, pur prive di questo oggetto, incidano in qualche modo sui diritti menzionati. La giurisprudenza è concorde nel considerare le sole modificazioni dirette come giustificanti il diritto di recesso del socio.
In considerazione delle argomentazioni riportate, e al netto della non sempre agevole distinzione tra le due tipologie di modificazioni statutarie, gli Autori non possono quindi che apprezzare la ricostruzione offerta dalla Corte, secondo la quale la delibera che destini una parte degli utili alla formazione di una riserva di patrimonio netto, in quanto modificazione diretta di un diritto di partecipazione, abilita il recesso del socio ai sensi della lettera g).
§ 17. Mauro Bini, Le stime di fair value ed i partecipanti al mercato, in Le Società, IPSOA, n. 8-9/2019
Parlare di ‘fair value’ di un’attività significa parlare di una fattispecie caratterizzata da livelli di complessità ed astrazione crescenti quanto più ci si allontana dalla presenza di un mercato attivo grazie al quale determinare il prezzo di mercato. Pertanto, la determinazione dell’exit price di un’attività (es. una partecipazione societaria), quando si è in assenza di un mercato attivo sia per quella specifica attività sia anche per attività simili, richiede «la stima del prezzo che si formerebbe in un ipotetico scambio con ipotetici partecipanti al mercato».
E’ proprio su quest’ultima tipologia di fair value che il lavoro qui segnalato si concentra, suggerendo al lettore il corretto paradigma valutativo e indicandogli alcune potenziali trappole concettuali.
Base della valutazione deve essere la prospettiva dell’ipotetico acquirente, o meglio della categoria di acquirenti in grado di sfruttare al meglio l’attività («Highest and Best Use»), che non necessariamente si identifica con l’attuale proprietario dell’attività da valutare.
La valutazione, del resto, differisce anche in considerazione della tipologia di investitore, a seconda cioè che si parli di un financial buyer o di uno strategic buyer, figure in relazione alle quali variano strategie di investimento e rapporto atteso tra rendimento e rischio.
Così delineato il paradigma valutativo, l’Autore rammenta poi alcune delle principali «trappole concettuali» riscontrabili, quali la presenza di clausole di change of control e la presenza di un debito finanziario con valore di mercato inferiore al valore nominale, elementi neutralizzabili sempre «facendo uso di una corretta prospettiva dei partecipanti al mercato».
§ 16. Matteo De Poli, L’OPA obbligatoria e la rettifica del prezzo per fatti “colludenti”, in Le società, IPSOA, n. 7/2019
Il lavoro propone uno spunto critico in tema di OPA obbligatorie, focalizzandosi sull’ampiezza dei poteri di Consob nella rettifica del prezzo di acquisto delle azioni. Anche al netto della vicenda che fa da sfondo al commento e dei brevi cenni sull’istituto, ciò che più interessa è quindi la ricostruzione dei poteri di rettifica di Consob in caso di collusione tra offerente e uno o più venditori. Tali poteri originano, come noto, dall’obiettivo insito nell’OPA obbligatoria di tutelare al meglio gli azionisti di minoranza, motivo per cui l’elemento cardine del sistema è proprio l’equità del prezzo di acquisto delle azioni, parametrata su precisi criteri normativi.
Va da sé che l’elemento collusivo può invece rompere l’equilibrio così creato. E proprio sul concetto di ‘collusione’, l’Autore ricorda che per la Corte UE esso deve essere munito, nell’ordinamento interno, di un significato certo e prevedibile.
Ma ciò confligge con l’ampia discrezionalità concessa a Consob nel determinare cosa sia e cosa non sia collusione, prerequisito del suo potere di rettifica del prezzo di acquisto. Il margine di discrezionalità, infatti, se da un lato «garantisce all’Autorità una maggiore elasticità nell’affrontare situazioni nuove … o particolarmente complesse», dall’altro «può portare Consob ad un eccesso di zelo nella tutela degli azionisti di minoranza, ravvisando situazioni di collusione anche laddove non ve ne siano». In altre parole, una troppo ampia discrezionalità, si conclude, finirebbe in buona sostanza per minare la certezza del diritto.
§ 15. Gian Domenico Mosco, Salvatore Lopreiato, Doveri e responsabilità di amministratori e sindaci nelle società di capitali, in Rivista delle società, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 1/2019
L’amministrazione della società di capitali e le responsabilità derivanti da tale attività rappresentano un tema complesso e dai confini talvolta sfocati, di cui il contributo qui segnalato offre una pregevole esegesi normativa. La volontà di fare chiarezza su una riforma, quella del 2003, che a distanza di anni lascia ancora margini di discussione, è particolarmente sentita nell’analisi di quello stravolgimento che ha visto confondersi e sovrapporsi i due piani della tutela obbligatoria e della tutela reale, in precedenza nettamente divisi tra amministratori e assemblea.
Da ciò, «il quadro delle responsabilità e delle azioni esperibili nei confronti di amministratori e sindaci risulta di conseguenza profondamente modificato».
Il rafforzamento del ruolo gestorio in capo all’amministratore, voluto dalla riforma, induce infatti la necessità di far luce sul complesso di regole del 2392 c.c., e soprattutto sui doveri del soggetto chiamato ad amministrare e sui parametri da prendere a riferimento per valutarne l’operato.
Sul punto, gli Autori individuano due assetti fondamentali. Innanzitutto, vale come vera e propria «clausola generale» il concetto di corretta amministrazione, sistema che rende ‘misurabile’ quei doveri di diligenza (come cura degli interessi sociali) e di lealtà (come assenza di conflitto di interessi) che permeano l’attività gestoria. Il tutto, naturalmente, valutabile nell’ottica di una ‘diligenza professionale’ anch’essa misurabile nei suoi richiami normativi alla “natura dell’incarico” (parametro oggettivo) e alle “specifiche competenze” (parametro soggettivo).
La «sub-clausola generale» è invece rappresentata dal dovere di agire informato, modulabile in maniera differente a seconda se lo si riferisca alle attribuzioni degli amministratori delegati o alle attività del consiglio rispetto alle prime.
Quest’ultima considerazione offre poi agli Autori lo spunto – prima di accennare alla responsabilità dei sindaci in termini di responsabilità solidale «sussidiaria e di secondo grado» - per accogliere nel discorso la distinzione tra amministratori esecutivi e non esecutivi, doppio livello nell’ambito del quale è comunque necessario escludere un dovere di vigilanza generale in capo ai secondi.
§ 14. Gianluca Riolfo, Il nuovo codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza e le modifiche al codice civile: il diritto societario tra “rivisitazione” e “restaurazione”, in Contratto e impresa, Cedam, n. 2/2019
La riforma delle procedure concorsuali, introdotta con il nuovo Codice della crisi d’impresa (D.Lgs. n. 14/2019), merita un inquadramento sistematico, prevedendo non solo l’introduzione di nuovi istituti, ma anche la riorganizzazione di istituti preesistenti.
Partendo dalla legge delega, il contributo propone quindi una lettura ragionata della riforma e delle sue novità, mettendo in chiaro fin da subito che il nuovo Codice della crisi d’impresa si trova in bilico tra aderenza ai principi societari dettati dal Legislatore del 2003 e restaurazione di principi e logiche ancora antecedenti.
Tra le principali novità segnalate, una nuova e (forse più) articolata strutturazione di doveri e responsabilità degli organi sociali. Il rilievo particolare già attribuito alla predisposizione di assetti interni adeguati a far emergere i sintomi della crisi, è ulteriormente accentuato dalla nuova disciplina, in cui i soci sono chiamati al ruolo di organizzatori della cornice entro la quale andranno ad agire amministratori ed organi di controllo. Sotto questo profilo, per l’Autore sembrerebbe prospettarsi la delineazione di un sistema in cui il fulcro rischia di essere la corsa all’esonero da responsabilità. Questa “procedimentalizzazione dell’attività gestoria”, sotto altro profilo, sembra peraltro poter portare benefici al funzionamento dei meccanismi societari, ma a scapito delle piccole imprese, che ne risultano oltremodo appesantite.
Un peso, quello che la riforma pone sulle spalle delle piccole realtà, che si avverte in special modo nell’avvicinamento della disciplina delle s.r.l. a quella delle s.p.a.. In tal senso, ammonisce l’Autore, “l’appiattimento del tipo” – esigenza nata dagli infiniti dubbi legati alla s.r.l. ‘leggera’ del 2003 – rischia di vanificare “l’innovazione e l’ammodernamento del nostro diritto societario”.
§ 13. Federico Riganti, La società semplice di godimento. Spunti di riflessione, in Contratto e impresa, Cedam, n. 1/2019
Esiste una forma di compatibilità tra il mero godimento di beni e le caratteristiche tipizzanti del contratto di società? Questo interrogativo, al quale il contributo fornisce una ben strutturata risposta, richiama innanzitutto sollecitazioni di carattere storico-giuridico. L’Autore scava infatti, con dovizia di riferimenti normativi, nell’abrogato Codice Civile ottocentesco, alla ricerca dell’archetipo di stampo liberale capace di dare impulso all’indagine: lo si ritrova, in particolare, nel modello della società civile, contrapposta alla società commerciale per la “diversità dei mezzi a cui è affidato il conseguimento del lucro”, mezzi che rendevano tale tipologia societaria, in effetti, “una delle figure più evolute di comunione qualificata”.
E’ invece il passaggio all’attuale Codice Civile a cambiare le carte in tavola: l’introduzione dei requisiti (a) di economicità (intesa come lucro, art. 2247 c.c.) dell’affare sociale e (b) dello svolgimento di attività economica (intesa come produzione di nuova ricchezza), hanno infatti determinato la collocazione delle comunioni a scopo di godimento nel Libro III, invece che nel Libro V. Sottolinea infatti l’Autore che nel Codice del 1942 è ravvisabile “l’accreditamento di una nuova visione della società” imperniata sulla nozione di impresa, in cui lo scopo di lucro è ridisegnato esattamente come attività economica nel senso già inteso.
In questa nitida impostazione, tuttavia, emerge il modello della società semplice, che l’art. 2249 c.c. riserva all’attività non commerciale e che perciò sembrerebbe idoneo allo svolgimento dell’attività di mero godimento.
Anche al mero godimento immobiliare? Dopo aver tratteggiato le tradizionali perplessità della dottrina sul tema, l’Autore suggerisce una tripartizione nella gestione dei beni in società, in cui accanto all’attività commerciale e alla mera comunione di godimento, si pone anche l’attività “non commerciale, ma pur sempre economica e finalizzata all’utile”, che sembra ricadere nell’ambito della società semplice.
Sul punto, tuttavia, il contributo suggerisce in conclusione l’introduzione di una specifica disciplina della società non commerciale di godimento.
§ 12. Carlo Limatola, Strumenti finanziari “ibridi” e risanamento dell’impresa, in Banca Borsa Titoli di credito, Giuffrè Francis Lefebvre, n. 2/2019
La società per azioni, assecondando i canoni della Riforma del diritto societario, ricorre ormai con frequenza a forme alternative di finanziamento, quali ad esempio gli strumenti finanziari cosiddetti ‘ibridi’, le cui peculiarità li distinguono tanto dalle azioni quanto dalle obbligazioni.
Partendo dal dato empirico, il contributo qui segnalato si pone in particolare nell’ottica dell’utilizzo degli strumenti ibridi quale possibile soluzione win-win al rifinanziamento dell’impresa in crisi: la conversione di un credito in capitale di rischio, infatti, mentre offre alla società una possibile riduzione dell’esposizione debitoria, assicura al contempo al creditore un maggior coinvolgimento nella vita della società, mediante l’attribuzione di diritti amministrativi.
Sul punto l’Autore si pone un interrogativo dirimente: quali sono i limiti posti alla libertà statutaria nel determinare il contenuto degli strumenti finanziari ibridi?
L’indagine muove dal momento dell’acquisizione negli ordinamenti continentali del titolo ibrido di provenienza anglosassone, e si focalizza ben presto su una ricognizione, anche prospettica, del campo di applicazione degli artt. 2346 c.c. (che autorizza le s.p.a. ad emettere strumenti finanziari con diritti amministrativi, escluso il diritto di voto nell’assemblea degli azionisti) e 2411 c.c. (che assoggetta alla disciplina delle obbligazioni gli strumenti che condizionano il rimborso all’andamento economico della società).
Il problema interpretativo si sposta così sull’unitarietà dell’istituto, con le fattispecie di cui ai predetti articoli che, secondo l’Autore, si pongono in rapporto da genere a specie.
Ne emerge – anche grazie a una parentesi comparatistica con gli ordinamenti svizzero, tedesco, francese e belga – un ridimensionamento della tradizionale contrapposizione tra strumenti ibridi regolati dallo statuto societario (quelli del 2346) e strumenti ibridi disciplinati per legge (quelli del 2411). Il rinvio alla disciplina obbligazionaria previsto per i secondi, infatti, non inficia il carattere unitario dell’istituto, ma “ha la sola funzione di assicurare ai sottoscrittori una disciplina più rigida […] in considerazione del loro contenuto” (laddove tale contenuto si identifica con il predetto rimborso condizionato all’andamento societario).
Da ultimo, affermata la subordinazione del riconoscimento di una posizione amministrativa all’esistenza di diritti patrimoniali, il contributo si sofferma sulla valutazione della compatibilità tra strumenti e operazioni di ristrutturazione del debito di un’impresa in crisi. Sul punto l’Autore sottolinea in particolare l’impossibilità che la società emetta strumenti finanziari che riconoscano al contempo un diritto incondizionato alla restituzione del capitale e una posizione amministrativa: tale posizione, infatti, per le ragioni già menzionate, è funzionalizzata dal Codice al controllo dell’operato societario nei soli casi in cui la restituzione stessa risulti incerta.
§ 11. Enrico E. Bonavera, Il computo delle azioni proprie con voto sospeso ai fini del quorum deliberativo, in Le Società, IPSOA, n. 3/2019
Uno degli obiettivi della disciplina che regola le delibere assembleari di società, come noto, è il bilanciamento tra speditezza delle determinazioni e tutela delle minoranze. Sul tema incide, inter alia, la considerazione data dal Legislatore alle azioni proprie, cioè quelle azioni tenute “in pancia” dalla società e, perciò, in ipotesi utilizzabili in maniera strumentale nel calcolo dei quorum assembleari.
Nel commentare una recente decisione della Suprema Corte circa il computo di tali azioni a fini deliberativi, l’Autore restituisce così il quadro evolutivo della materia, con riferimento sia alle scelte legislative sia agli orientamenti giurisprudenziali.
Sul primo versante (quello legislativo), il punto di partenza è l’art. 2357 del Codice Civile, il quale ha inteso “sterilizzare le azioni proprie, sospendendo per esse l’esercizio del diritto di voto”, proprio per evitare un loro utilizzo speculativo.
Si dà poi conto degli interventi successivi, tra i quali il d.P.R. n. 30/1986, che ha specificato – fermo restando il voto “congelato” per le azioni proprie – la necessità di calcolarle per la verifica del quorum costitutivo e deliberativo; e il D.Lgs. n. 224/2010, che ha invece suddiviso la disciplina in funzione delle modalità di approvvigionamento dei capitali da parte delle società: per le società che accedono al mercato del capitale di rischio, le azioni proprie si computano nel quorum costitutivo, ma non in quello deliberativo; viceversa, per le altre società, tali azioni risultano sempre computate.
Sul secondo versante (quello giurisprudenziale), l’Autore individua, arricchendole di riferimenti, tre differenti fasi interpretative, che vanno a coincidere con le modifiche normative predette. Se in un primo momento le azioni proprie erano escluse dai calcoli assembleari, in un secondo momento si è preferita una soluzione mediana: le azioni proprie sono state incluse nella base di calcolo, ma soltanto se e quando la disciplina societaria richiedesse un calcolo delle maggioranze in percentuale sul capitale sociale.
A seguito dell’ultima riforma, tuttavia, la giurisprudenza ha iniziato a declinare il contemperamento dei differenti interessi assembleari in funzione delle specificità societarie, favorendo la speditezza decisoria nelle società aperte (in cui, perciò, le azioni proprie sono computate solo per la regolare costituzione dell’assemblea), e preferendo invece un maggior equilibrio tra azionisti nelle società chiuse (in cui, perciò, le azioni proprie sono computate anche a fini deliberativi, per evitare acquisti strategici).
§ 10. Mario Campobasso, Il futuro delle società di capitali, in Rivista delle società, n. 1/2019, Giuffrè Francis Lefebvre orologi replica
Nel prefigurare le tendenze evolutive che potrebbero caratterizzare la legislazione societaria, e in particolare quella delle società di capitali, il saggio muove da una ricognizione degli sviluppi in atto: tra questi, la progressiva crescita numerica delle s.p.a. e delle s.r.l. a seguito della riforma del 2003, e il lento avvicinamento che sta interessando la disciplina di questi due tipi societari, invece molto lontani tra loro all’indomani della citata riforma. “E’ probabile pertanto che nel futuro la s.p.a. e la s.r.l. saranno modelli societari sempre più elastici e manipolabili, separati da confini tipologici sempre più sfocati e indistinti”.
L’analisi segue poi tre direttrici fondamentali: l’organizzazione finanziaria della società di capitali, la governance e l’influsso tecnologico.
Sotto il primo profilo, l’Autore evidenzia la graduale perdita di importanza del capitale sociale: segnali in tal senso si riscontrano, per esempio, nell’abbassamento sostanziale del minimo legale delle s.p.a., e nella scelta ancor più disruptive riguardante la s.r.l. a un euro. La ragione dietro a tali fenomeni è riscontrabile nella “finanziarizzazione dell’economia” e nello “sviluppo di canali di finanziamento alternativi alle banche”, come il crowdfunding e il P2P lending. Ma proprio sul tema della finanziarizzazione emerge un forte ammonimento: fenomeni come una sbilanciata ripartizione dei rischi e un eccessivo utilizzo di strumenti quali la cartolarizzazione sembrano infatti incapaci di reggere di fronte a una crisi finanziaria.
Per quanto riguarda il modello gestorio, le conclusioni dell’Autore in tema di s.p.a. abbracciano invece un ottimistico orizzonte di medio-lungo periodo: se l’obiettivo di fondo è (e deve essere) la crescita sostenibile dell’impresa, e non la massimizzazione dei profitti di breve termine, gli interessi di shareholders e stakeholders, che gli amministratori sono chiamati a comporre, finiranno per convergere, piuttosto che confliggere.
Da ultimo, in tema di sviluppo tecnologico, l’Autore – pur mettendo in guardia il lettore da potenziali abusi e manipolazioni digitali – prefigura uno scenario in cui internet e i social media rappresenteranno la chiave per favorire una vera e propria rivoluzione del funzionamento societario, per esempio con una maggiore rilevanza dei piccoli azionisti. “Il giorno in cui si potrà partecipare all’assemblea e votare scaricando un’app sul proprio cellulare anche gli azionisti minimi potrebbero far sentire la loro voce e risultare non più così irrilevanti come in passato”.
§ 9. Pier Paolo Pirani, Un’analisi empirica delle PMI innovative: Much ado about nothing?, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Francis Lefebvre, 45.6, 2018
Animato dall’intento di illustrare la (per ora) breve esperienza della legislazione premiale in favore delle imprese innovative, il saggio offre un’analisi strutturata dei “Decreti Crescita” succedutisi negli ultimi anni, tirando le somme sugli elementi che hanno funzionato e su quelli da rivedere.
L’assunto di fondo del Legislatore, condiviso dall’Autore del saggio, è che l’impresa innovativa tende a una migliore produttività rispetto a quella tradizionale. Sicchè, la realizzazione di un ecosistema “start up friendly”, che tanto ha giovato all’economia in altre realtà nazionali, ha fatto il suo esordio in Italia con il Decreto Crescita 2.0 del 2012, con cui si è delimitato il perimetro della “start up innovativa” e si sono predisposte misure agevolative come il taglio dei costi amministrativi e alcune deroghe alle norme di diritto societario (soprattutto in tema di partecipazione sociale e di struttura finanziaria).
Col Decreto Crescita 3.0 del 2015 si è poi assistito a un “allargamento della platea” dei beneficiari in favore delle PMI innovative, seppur con alcune limitazioni: in particolare, ricorda l’Autore, mentre le deroghe societarie (equity crowdfunding, work for equity) sono state traslate anche sul nuovo modello, lo stesso non è accaduto per la più snella normativa sulla crisi d’impresa prevista per le start up. Il riequilibrio si è poi verificato tra il 2016 e il 2017 con il Decreto Crescita 4.0.
Al netto di alcune riflessioni sul modello societario e sulla scarsa diffusione delle PMI innovative (evidenziata dal dato empirico), l’Autore esprime comunque apprezzamento per gli sforzi del Legislatore. Si osserva, tuttavia, che “la modifica delle regole societarie non sembra, ex se, sufficiente a determinare la scelta degli operatori verso uno specifico tipo sociale” e che simili sforzi andrebbero profusi anche nell’alleggerimento di altri aspetti della disciplina. Solo creando un ecosistema capace di attirare talenti, offrire mobilità lavorativa e mettere in contatto università e impresa si potrà infatti predisporre uno scenario adeguato alla crescita dell’innovazione e della competitività.
§ 8. Vincenzo Donativi, "Società a controllo pubblico" e società a partecipazione pubblica maggioritaria, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Francis Lefebvre, 45.5, 2018
Il saggio parte dalla distinzione tra “società a partecipazione pubblica” e “società a controllo pubblico”, posta dal TUSPP (Testo Unico in materia di Società a Partecipazione Pubblica), per scandagliare il perimetro della seconda tipologia di società. In prima battuta, l’Autore ricorda che la norma pone una disciplina generale per le società a partecipazione pubblica, andando poi a costruire una disciplina specifica, e più stringente, per le società a controllo pubblico. E, proprio sotto questo profilo, ci si chiede se la definizione di “controllo pubblico”, qualora la compagine societaria sia composta da più Amministrazioni, possa riferirsi non soltanto a tutte quelle situazioni in cui le P.A. esercitino un controllo effettivamente congiunto (dettato da patti parasociali o da altre tipologie di strumenti), ma anche alle situazioni in cui, in assenza di tale controllo congiunto, l’elemento di rilievo sia la semplice maggioranza pubblica delle partecipazioni.
Prima di argomentare la propria tesi, l’Autore riporta un’ampia ricostruzione delle voci esistenti sul punto: tra le altre, l’orientamento del MEF e di parte della dottrina, inclini a vedere un controllo pubblico solo laddove, anche in assenza di formalizzazioni, vi sia però un esercizio effettivamente congiunto del controllo da parte delle PA; e l’opinione espressa in sede consultiva dalla Corte dei Conti Liguria, secondo cui le società a partecipazione pubblica maggioritaria, anche se frazionata, risultano ugualmente essere a controllo pubblico.
Infine, il saggio esprime una posizione vicina a quella del MEF, corroborandola con argomentazioni di carattere sistematico e storico, confrontando la disciplina del TUSPP con altre normative contenenti locuzioni similari a quelle in discorso (es. “partecipazioni pubbliche di maggioranza” e “prevalenti”), e ragionando sulla nozione di controllo societario ai sensi dell’art. 2359 del Codice Civile.
§ 7. Vincenzo Di Cataldo, Presentazione di "L'assemblea di società per azioni" di M. Libertini, A. Mirone, P.M. Sanfilippo, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Editore, 45.2, 2018
Nel presentare il volume “L’assemblea di società per azioni”, l’Autore del breve ma pregevole saggio (tratto da un intervento seminaristico) ne illustra le più interessanti direttrici, capaci di offrire spunti sulla dimensione imprenditoriale odierna.
In primo luogo, si sottolinea l’accezione dinamica del termine “impresa”: la società è, e deve essere, solo in quanto soggetto capace di evolversi e di adattare le proprie scelte al mutevole contesto di mercato.
A tale dinamicità si rifà anche la sfera temporale “accelerata” dell’impresa, che è possibile cogliere, sotto il profilo societario, specialmente nel breve lasso di tempo concesso per l’impugnazione delle delibere assembleari: l’orizzonte dell’impresa, e talvolta anche del socio, è sempre “proiettato sul futuro”.
A chiudere la presentazione, interviene il rinnovato accento posto sulla natura contrattuale del fenomeno societario: il contratto personalizza in un certo senso l’impresa, che è espressione di uomini e non di “anonimi”.
§ 6. Luigi Balestra, Il ruolo dei codici etici nell’autoregolamentazione del mercato, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Editore, 45.2, 2018
È risaputo che il mercato globale, caratterizzato da un elevato livello di concorrenzialità tra imprese, vede sempre più nella Corporate Social Responsibility un antidoto alla massimizzazione del profitto a tutti i costi. Si tratta di un tema etico, prima ancora che giuridico, in cui si riscontrano istanze ambientali, sociali e reputazionali.
La tendenza all’autoregolamentazione, all’adesione cioè da parte delle imprese a codici etici, è particolarmente sentita nei mercati più sviluppati, e il saggio propone una visione strutturata del ruolo che essi possono svolgere. La regolazione, afferma l’Autore, deve necessariamente fermarsi un gradino prima della sfera etica, deputata com’è a bilanciare le potenziali distorsioni concorrenziali con l’efficienza del mercato. In un simile contesto, i codici etici possono invece spingersi oltre, aiutando a rimodulare il mercato “in senso sociale”.
Il saggio riflette perciò sulla complementarietà tra regolazione ed etica, con la prima chiamata a spingere l’adesione delle imprese ai codici (in Italia è accaduto, per esempio, con la Legge 231/2001) e con la seconda chiamata a svolgere la funzione di “strumento di promozione di comportamenti virtuosi”, il cui premio è rappresentato da un vantaggio reputazionale per l’impresa virtuosa.
§ 5. Federico Riganti, La nuova direttiva sui diritti degli azionisti: alcune riflessioni introduttive, in Le nuove leggi civili commentate, Cedam, n. 3/2018
Nell'analizzare la Direttiva 2017/828, l'Autore richiama tre delle tematiche principali affrontate dal Legislatore europeo: la tutela degli shareholders nell’andamento dell’affare sociale, la remunerazione degli amministratori e le operazioni con parti correlate.
Sotto il primo profilo (tutela degli shareholders), si sottolinea l’importanza del concetto di ‘trasparenza’, sia in termini informazionali, sia in termini di voto. Gli investitori istituzionali sono quindi chiamati ad un nuovo ruolo di “partecipazione attiva”, comunicando agli azionisti le informazioni più importanti sul proprio operato.
Sotto il secondo profilo (remunerazione degli amministratori), il focus è sul potenziamento del diritto di voice da parte degli azionisti, in particolare mediante la possibilità di esprimere un voto non vincolante sul tema.
Sotto il terzo profilo (operazioni con parti correlate), infine, si sottolinea la continuità della direttiva con la disciplina italiana emanata dalla Consob: in entrambi i casi, trasparenza e procedimentalizzazione delle operazioni rappresentano il fulcro del bilanciamento di interessi.
In conclusione, l'Autore mette pertanto in luce la coerenza della direttiva con l’idea di incentivare la creazione di valore da parte delle società (mediante investimenti di lungo periodo) e, al contempo, di favorire il confronto tra shareholders istituzionali e amministratori. L’obiettivo è mantenere aperto il dialogo tra le parti sulle strategie decisionali, in un contesto in cui l’interesse sociale mira a un orizzonte più ampio del solo profitto.
§ 4. Paolo Montalenti, L’interesse sociale: una sintesi, in Rivista delle società, n. 2-3/2018
La complessa tematica relativa all’interesse sociale è inquadrata da una pluralità di prospettive, legate soprattutto alla ricalibrazione del fenomeno sulla base della normativa di livello nazionale ed europeo. Molte sono le argomentazioni richiamate, anche in tema di conflitto di interesse degli amministratori, di leveraged buy out, di interessi di gruppo legati ad attività di direzione e coordinamento e di esclusione del diritto di opzione per esigenze sociali: tutte convergono nel dimostrare l’improponibilità della “concezione dell’interesse sociale come mero interesse dei soci attuali alla divisione degli utili”. L’Autore propone dunque un differente, e più ampio, concetto di interesse sociale, un “interesse aziendale” inteso come razionalità della gestione dell’affare sociale, finalizzata alla “valorizzazione della partecipazione” nel lungo periodo.
A sostegno di questa tesi, è innanzitutto richiamata la divisibilità dell’interesse degli azionisti: non esiste infatti l’azionista ideale, ma tanti azionisti concreti, che col loro investimento perseguono obiettivi differenti (azionisti di controllo, investitori qualificati, azionisti di minoranza). Tale pluralità di interessi, tutti riferibili agli shareholders, è poi integrata dagli interessi degli stakeholders (dipendenti, consumatori, comunità), che implicano riflessioni in tema di ethic principles e di Corporate Social Responsibility.
L’importanza della prospettiva long term degli investimenti e il coinvolgimento dell’interesse degli stakeholders nelle politiche societarie sono poi confermate indirettamente dalle disposizioni in materia di relazione sulla gestione e di offerta pubblica di acquisto, elementi che espandono le maglie dell’interesse sociale ben oltre lo scopo di lucro (che resta comunque l’obiettivo primario). Una conferma, stavolta diretta, della tesi appena descritta si riscontra poi nella normativa europea, e in particolare nella suddetta Direttiva 2017/828, che incoraggia e promuove l’impegno “efficace e sostenibile” degli azionisti e auspica un “coinvolgimento di tutti i portatori di interessi” nell’andamento dell’affare sociale, anche con un maggior dialogo tra azionisti qualificati e management societario.
Sulla base di tali considerazioni, l’Autore suggerisce dunque una prospettiva di riforma dell’istituto dell’assemblea e un maggior confronto tra investitori istituzionali e azionisti qualificati, il tutto in un mercato azionario diviso tra la tendenza all’“high frequency trading” e il rinnovato “attivismo degli investitori istituzionali”.
§ 3. Gustavo Visentini, Riflessioni su “La Riforma del diritto societario”, in Giurisprudenza Commerciale, Giuffrè Editore, 45.1, 2018
Il saggio offre alcuni interessanti spunti di riflessione sul tema della governance societaria e del risparmio diffuso, tra dimensione privatistica (il contratto di società) e dimensione pubblicistica (le crisi finanziarie come problema politico).
A un preludio di carattere storico, in cui l’Autore ragiona sul “concorso dell’intervento pubblico nella gestione delle imprese industriali” - un intervento nato nel dopoguerra per ragioni socio-economiche, ma ancora patologicamente presente nel mutato scenario economico - segue un’acuta analisi della Riforma del diritto societario.
In un contesto in cui il sistema bancario sembra aver tarpato le ali al mercato di borsa, la domanda cui il saggio cerca di rispondere è se la Riforma del diritto societario sia finalmente riuscita a offrire una virata dell’assetto corporate, dalla tradizione di “economia mista”, verso il mercato. Una virata che, tuttavia, sembra essere ancora ostacolata da alcune scelte legislative, come la concentrazione dei poteri nella figura dell’Amministratore Delegato e il “ridimensionamento dell’assemblea”.
Ciò che più sembra preoccupare l’Autore, comunque, è che alla base della Riforma aleggi un’idea di deregolamentazione che rischia però diventare anarchia, perché “è sulle regole che si costruisce il mercato”. Una regolamentazione affievolita, che lasci la valutazione sull’operato degli amministratori solo al mercato che lo finanzia, ha in tal senso il sapore del “diritto ipocrita delle grida manzoniane”.
A chiudere il lavoro, alcune proposte di regolamentazione. In primo luogo, una rinnovata e piena centralità del Consiglio di Amministrazione. Poi, l’apertura anche al singolo azionista dell’azione sociale. Infine, l’eliminazione del sistema monistico e una revisione del sistema dualistico. Il tutto anche nell’ottica di ricondurre sui binari un assetto politico-economico che si trova sì a fronteggiare la crisi, ma che al tempo stesso deve uscire il prima possibile dalle sabbie mobili dell’economia mista.
§ 2. Giorgio Marasà, Società e associazioni forensi dopo le modifiche introdotte dall’art. 1, comma 141, L. 4 agosto 2017, n. 124: prime considerazioni e interrogativi, in Giurisprudenza Commerciale, n. 45.1, 2018
Dopo l’apertura del mercato alla costituzione di società per lo svolgimento delle professioni (“Legge Bersani”, n. 266/1997), la disciplina delle società o associazioni tra professionisti ha vissuto una certa disorganicità. L’orizzonte normativo che il saggio delinea sembra infatti caratterizzarsi per interventi normativi settoriali (L. 183/2011, L. 247/2012 o, ancora, D.Lgs. 96/2001 che ha istituito la società tra avvocati) e per incertezze (come l’applicazione dei criteri per l’iscrizione all’albo delle associazioni multidisciplinari, che l’Autore risolve con il riferimento al criterio della prevalenza numerica).
Al termine di questa “lunga stagione” di leggi disorganiche, e partendo da una visuale ancorata alla professione forense, la Legge n. 124/2017 ha cercato invece di offrire una soluzione ad alcune delle suddette problematicità. Da ciò è nata la nuova società forense, modello “soggettivamente misto”, che prevede la potenziale partecipazione di soci professionisti non avvocati e, addirittura, di soci non professionisti.
Per quanto riguarda i professionisti non avvocati, la disciplina appare tuttavia scarna, e il saggio si interroga sulla compatibilità tra la nuova società forense e il divieto di doppia partecipazione, nato nel contesto della STP forense ed esteso poi a tutte le professioni regolamentate.
Per quanto riguarda i soci non professionisti, la Legge richiede “la preminenza dei soci professionisti sugli altri soci”, una questione che per l’Autore si lega alla possibile riqualificazione della società come impresa: ciò può accadere quando il “potere gestorio si concentra nelle mani di soggetti che, a prescindere dalla loro qualifica professionale […], di fatto non prestano opera professionale per la società”. In tal caso, la società sarebbe soggetta alla disciplina commerciale, incluse le procedure concorsuali? L’Autore, a differenza di quanto accadeva nella vecchia società forense, ma al pari di tutte le STP nate dalla L. 183/2011, lo ritiene ipotizzabile.
§ 1. Umberto Tombari, L’organo amministrativo di S.p.a. tra “interesse dei soci” ed “altri interessi”, in Rivista delle società, Giuffrè Editore, n. 1/2018
L’azione del potere gestorio nelle società per azioni, che il codice civile funzionalizza alla produzione e distribuzione di utili, deve limitarsi a perseguire l’interesse lucrativo dei soci, o può ambire a un bilanciamento con altre tipologie di interessi?
È questa, in sintesi, la domanda cui l'Autore cerca di offrire una risposta. Si tratta di una riflessione spinta da istanze comparatistiche con i modelli societari tedesco e statunitense, nonché soprattutto dall’introduzione nel nostro ordinamento del modello di “società benefit”.
La società benefit – ricorda l’autore – è amministrata in modo da bilanciare gli interessi dei soci col perseguimento di altre finalità di beneficio comune. In tal modo, il beneficio comune diventa parte dell’oggetto sociale, fine societario assieme al tradizionale scopo di lucro.
Ma, si interroga ancora l’Autore, la tipizzazione di un modello societario preposto al contemperamento di finalità lucrative e non lucrative, osta al perseguimento da parte delle società non benefit di interessi differenti da quelli dei soci? Il tema è di grande attualità, anche in considerazione del dibattito sull’agire delle big companies e della loro ethic responsibility nei confronti di tutti gli stakeholders.
La risposta, tuttavia, sembrerebbe circoscrivere il perseguimento di interessi estranei all’oggetto sociale (come, per esempio, gli interessi etici) solo a singole attività di natura residuale, come tali sempre subordinate alla finalità di lucro, che resta pertanto il faro nella notte dell’attività d’impresa delle s.p.a..