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DAL WEB | I nostri abstract | Aggiornata al 16/07/2021



INDICE DELLE ULTIME SEGNALAZIONI:

§ 20. Miriam C. Buiten, The Digital Services Act: from intermediary liability to platform regulation
§ 19. Damien Geradin, What is a digital gatekeeper? Which platforms should be captured by the EC proposal for a Digital Markets Act?
§ 18. C. Scott Hemphill, Disruptive incumbents: platform competition in an age of machine learning
§ 17. Valeria Falce, La nuova direttiva copyright e l’eccezione di insegnamento tra vincoli e limiti. Cenni ricostruttivi
§ 16. Luciano Panzani, Il preventive restructuring framework nella Direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze.

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§ 20. Miriam C. Buiten, The Digital Services Act: from intermediary liability to platform regulation, June 2021, SSRN

La responsabilità delle piattaforme e il contrasto alla diffusione di contenuti illeciti rappresentano, come noto, due dei temi di maggior rilievo nel panorama digitale. Rispetto ad essi il Digital Services Act, una proposta di Regolamento attualmente al vaglio delle Istituzioni europee, sembra porsi su una linea mediana tra continuità ed evoluzione.

Gli elementi di continuità, secondo il contributo, risiedono nell’aver confermato, in larga parte, le “liability rules” della direttiva e-commerce. Al tempo stesso, tuttavia, il DSA amplia l’orizzonte con una regolazione a più livelli, che implementa obblighi via via crescenti per le differenti tipologie di provider e di piattaforme, fino ad arrivare alle Very Large Online Platform, oggetto di un’attenzione specifica in considerazione del loro determinante ruolo nella digital economy.
 



Partendo da tali presupposti, il lavoro tenta di sistematizzare e razionalizzare i punti cardine del DSA. La regolazione passa naturalmente anche dai sistemi di content moderation, date le vulnerabilità e i rischi legati, ad esempio, alla disinformazione online e alla diffusione illecita di contenuti protetti da diritto d’autore.

Sotto questo profilo, l’Autrice rileva che “the debate about platform responsibility … is about the role of platforms in removing harmful content and the disadvantages of platforms having too much power in deciding what content to show”.

Il DSA, si afferma inoltre, mira a incrementare la protezione dei consumatori e dei loro diritti fondamentali, nonché a creare coesione normativa a livello europeo. Il contributo entra nel dettaglio delle scelte di politica legislativa, ad esempio esaminando le tre alternative proposte nell’impact assessment del DSA circa la modernizzazione della responsabilità dei provider.

L’Autrice sottolinea attentamente che, pur senza stravolgimenti, il DSA introduce alcune novità di particolare rilievo. Si mette ad esempio in evidenza il superamento di alcune delle principali incertezze della direttiva e-commerce (quali il concetto di ruolo attivo e di “knowledge” da parte della piattaforma), così come l’introduzione del meccanismo di one-stop-shop nella cooperazione e comunicazione con le autorità, o dei trusted flaggers, o ancora degli obblighi delle VLOP di additional risk management e di trasparenza.

In definitiva, “The DSA is an ambitious proposal seeking to reconcile the responsibility of service providers, hosting providers and online platforms with their changed role in optimising and moderating content on their platforms”. Sebbene non tutte le soluzioni normative sembrino, a parere dell’Autrice, rispecchiare il contesto digitale odierno, il DSA porta quindi con sé un nuovo e rilevante approccio regolatorio, con asimmetrie che favoriscono una più marcata regolazione delle grandi piattaforme, cui viene riconosciuto un ruolo chiave nella digital economy.

Disponibile all’indirizzo: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3876328



§ 19. Damien Geradin, What is a digital gatekeeper? Which platforms should be captured by the EC proposal for a Digital Markets Act?, in SSRN
Il dibattito sulla necessità di regolare le piattaforme digitali ha recentemente trovato risposta, in Europa, in due proposte di Regolamento, il Digital Services Act (DSA) e il Digital Markets Act (DMA). Quest’ultimo, in particolare, si occupa dei ‘gatekeepers’, cioè di quelle piattaforme che, in virtù delle loro caratteristiche, operano come colli di bottiglia - o, per usare le parole del contributo, come “necessary gateways” - tra imprese e consumatori online.

Gli utenti commerciali, come noto, scontano nei confronti di tali piattaforme un certo grado di dipendenza, con il conseguente rischio di vedersi imporre condizioni contrattuali unfair. In tale contesto, il DMA interviene con divieti ed obblighi specifici per le piattaforme che vengano designate come ‘gatekeepers’.È chiaro, allora, che i meccanismi di designazione dell’art. 3 del DMA rivestono una particolare importanza ai fini del corretto funzionamento del Regolamento e, dunque, dei mercati digitali.

È questo un tema su cui il lavoro riflette attentamente, evidenziando le criticità dei parametri qualitativi e quantitativi previsti, rispettivamente, dagli artt. 3.1 e 3.2 del DMA, e mettendo in guardia dal rischio di “over- and under-inclusiveness”: dal rischio, cioè, che venga designata come gatekeeper una piattaforma che in realtà non lo è o, viceversa, che venga esclusa dal novero una piattaforma che a conti fatti agisce come gatekeeper. Si tratta di un aspetto ancor più delicato - avverte l’Autore - se si pensa che il raggiungimento delle soglie quantitative previste dall’art. 3.2 implica la presunzione che anche i requisiti qualitativi del 3.1 siano soddisfatti.

Tuttavia, e qui sorge la prima criticità (“over-inclusiveness”), le soglie quantitative sembrano far riferimento esclusivamente alla dimensione delle piattaforme, un parametro ritenuto non sufficiente. Il DMA potrebbe infatti identificare come gatekeepersome companies that just happen to be large … but do not seem to have any a gatekeeping position on the core platform service”.

È vero comunque - si sottolinea - che il DMA prevede meccanismi volti a mitigare sia il rischio di “over-inclusiveness” sia quello di “under-inclusiveness”: il primo meccanismo, in sintesi, consente alla piattaforma, la quale raggiunga le soglie quantitative previste dal 3.2, di provare di non possedere i requisiti qualitativi richiesti dal 3.1; il secondo meccanismo dà invece alla Commissione la facoltà, sulla base di alcuni parametri, di identificare come gatekeeper anche una piattaforma che non raggiunga le soglie quantitative previste dal 3.2.

Anche sotto questo profilo non mancano margini di miglioramento: in primo luogo, sembra all’Autore che non vi sia traccia, all’interno dei criteri quantitativi dell’art. 3.2, del concetto di ‘dipendenza’ dalla piattaforma; in secondo luogo, si suggerisce l’inclusione del concetto di multi-homing tra i parametri in base ai quali valutare (ed eventualmente escludere) la suddetta dipendenza.

Negli scenari multi-homing, infatti, la presenza di più piattaforme riduce il potere negoziale della singola piattaforma, in quanto sia gli utenti business sia quelli consumer possono contare su delle alternative: in particolare, “the presence of multi-homing on both sides prevents the platform from taking advantage of any side”. Un ragionamento, quest’ultimo, che sembrerebbe in effetti dotato di una sua rilevanza, anche in considerazione delle numerose tipologie di piattaforme (social network, motori di ricerca, intermediazione online ecc.) che il DMA mira a regolare.

Disponibile all’indirizzo: https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=3788152



§ 18. C. Scott Hemphill, Disruptive incumbents: platform competition in an age of machine learning, in Columbia Law Review, Vol. 119/7        
Le grandi piattaforme online beneficiano di fattori – economie di scala ed accesso ai dataset – che risultano difficilmente replicabili da parte dei competitors. E’ con questa affermazione che il lavoro qui segnalato inizia a ricostruire le dinamiche concorrenziali dei mercati digitali, spesso oggetto di posizioni dominanti.      
L’Autore porta avanti il discorso spaziando dal mobile OS, al search, all’e-shopping, ai social network, osservando che market power e innovazione, pur non necessariamente ‘nemici’, vanno comunque necessariamente bilanciati sotto l’egida antitrust.   
Il problema sorge in particolare quando piattaforme, tecnologie e investimenti si incontrano in un unico soggetto dominante, capace di innalzare le barriere all’ingresso mediante l’utilizzo di strumenti innovativi quali il machine learning.       
In questo scenario, nota l’Autore, la concorrenza può provenire essenzialmente da due tipologie di soggetti: dai nascent competitors o dai disruptive incumbents.         
I primi si identificano con quelle start-up dalla forte componente innovativa, i secondi con quelle piattaforme dominanti che, sfruttando il potere derivante dal mercato digitale in cui operano, effettuano una cross-market entry.  
Queste forme di concorrenza, per essere effettive, necessiterebbero tuttavia di alcuni accorgimenti da parte delle autorità antitrust: in particolare, ed è questa la tesi di fondo dell’articolo, i nascent competitors richiederebbero un perimetro in grado di scongiurare davvero le cosiddette killer acquisitions, mentre i disruptive incumbents dovrebbero godere di una regolazione meno rigida, laddove ciò possa portare, nel mercato di ingresso, benefici ai consumatori in termini di innovazione ed offerta

Disponibile all'indirizzo: https://columbialawreview.org/content/disruptive-incumbents-platform-competition-in-an-age-of-machine-learning/


§ 17. Valeria Falce, La nuova direttiva copyright e l’eccezione di insegnamento tra vincoli e limiti. Cenni ricostruttivi, filodiritto.com
Il lavoro in commento ha il pregio di soffermarsi su un aspetto della direttiva copyright che – nelle accese discussioni su diritti connessi editoriali e video sharing platform – non si è collocato poi troppo spesso al centro del dibattito, vale a dire l’eccezione di insegnamento prevista dall’art. 5.  
Ricostruendo la fattispecie in prospettiva evolutiva, l'Autrice istituisce un parallelo con la disciplina InfoSoc e differenzia così le ipotesi di recepimento dell’eccezione prevista dalla nuova direttiva fra quegli Stati membri che abbiano già attuato l’eccezione InfoSoc con efficacia e quelli che invece non le abbiano dato pieno svolgimento: per i primi, sembrerebbe opportuno il mantenimento dello status quo, per i secondi l’adozione di un modello di licenza collettiva estesa. Sul punto, però, atteso il ruolo fondamentale giocato dalla facile reperibilità di «adeguate licenze» e dalla promozione di «forme di negoziazione» nell’economia dell’art. 5, il meccanismo delle licenze dovrebbe coordinarsi con la presenza di determinate condizioni, puntualmente specificate, a livello nazionale.  

Disponibile all'indirizzo: https://www.filodiritto.com/la-nuova-direttiva-copyright-e-leccezione-di-insegnamento-tra-vincoli-e-limiti-cenni-ricostruttivi



§ 16. Luciano Panzani, Il preventive restructuring framework nella Direttiva 2019/1023 del 20 giugno 2019 ed il codice della crisi. Assonanze e dissonanze., dirittobancario.it  
Fin dal titolo, il contributo chiarisce l’intento di voler offrire un primo, ma approfondito, confronto tra la disciplina contenuta nella recente direttiva europea sui quadri di ristrutturazione preventiva e il codice della crisi, emanato dal Legislatore italiano sulla base della Legge delega 155/2017, la quale recepiva le istanze europee – antecedenti alla direttiva – volte all’armonizzazione in materia di insolvenza.
Sussiste dunque tra i due termini del confronto, la direttiva e il codice della crisi, un intervallo temporale “inverso”, in cui il codice non si pone come normativa di attuazione della direttiva, ma come momento di raccordo della disciplina nazionale con i prevalenti indirizzi europei, richiedendo pertanto, ora, un intervento di maggior coerenza sistematica con la direttiva.    
L’Autore passa dunque in rassegna le principali novità legislative, come gli “early warning tools” (la nostrana “allerta”) e i piani di ristrutturazione preventiva, soffermandosi sulle differenze fondamentali tra codice e direttiva, senza peraltro dimenticarsi di vagliare importanti discipline di dettaglio, come il regime di sospensione delle azioni esecutive o quello dei nuovi finanziamenti e dei finanziamenti temporanei.    
Al netto delle dissonanze segnalate, tuttavia, si può affermare che le discipline considerate promuovano uno stesso obiettivo, cioè quel rafforzamento della «cultura del recupero dell’impresa in crisi e quindi la “prevenzione”», assicurato da «un regime diretto a facilitare la ristrutturazione preventiva dell’impresa ove vi sia probabilità d’insolvenza.»       

Disponibile all’indirizzo: http://www.dirittobancario.it/approfondimenti/crisi-dimpresa/il-preventive-restructuring-framework-nella-direttiva-20191023-del-20-giugno-2019



§ 15. Kirsty Hughes, The public figure doctrine and the right to privacy, in Cambridge Law Journal, Vol. 78/2, 2019     
Il pregio maggiore del lavoro qui segnalato è mettere in pausa l’instancabile dibattito giuridico su privacy e internet per focalizzarsi invece su un aspetto nient’affatto secondario del diritto alla privacy, ossia quella ‘public figure doctrine’ con cui si è soliti riferirsi alla sfera di riservatezza personale dei personaggi pubblici. Tradizionalmente, sostiene l’Autrice, alle figure pubbliche non è accordato lo stesso grado di protezione goduto invece dalle persone comuni. Si tratta di una circostanza che, sebbene suffragata da ampia e nota casistica internazionale, sembra però poggiare su argomentazioni logico-giuridiche incerte. Entra qui in gioco, come intuibile, il bilanciamento tra diritto alla privacy e libertà di espressione, quest’ultima sostenuta da un interesse pubblico a che lo spazio di riservatezza della ‘public figure’ sia in qualche modo circoscritto. 
E’ questo, peraltro, un bilanciamento che ha nel tempo esteso il concetto stesso di public figure, che in origine comprendeva esclusivamente il personaggio pubblico nell’esercizio delle proprie funzioni (es. un politico), ma che nel tempo ha invece finito col ricomprendere tutte le persone che sono «well known to the public» o che hanno una «position in society», fino a giungere al fumoso concetto di persone intenzionalmente immessesi nella «public scene».
Un fenomeno spiegabile peraltro col mutare della società: «in later centuries […] the rise of mass-circulation newspapers expanded interest beyond those with public roles to include the glamorous and the famous».
Ma la teoria così formatasi, detta appunto ‘public figure doctrine’, creando un divario tra la riservatezza del ‘famoso’ e del ‘non famoso’ finisce per minare, tra l’altro, il principio di uguaglianza dei diritti, senza tuttavia poggiare su solide basi: scarne e non condivisibili appaiono infatti le giustificazioni normative a una simile discrepanza, e l’Autrice riporta in tal senso interessanti argomentazioni ‘a contrario’.   
In conclusione, dunque, smontate le premesse della public figure doctrine, l’auspicio che chiude il contributo è il rigetto di tale costruzione giuridica e il ripensamento dei tradizionali canoni di bilanciamento tra diritto alla privacy e libertà di espressione, sicché il focus possa essere «upon the relative importance of the rights and degree of intrusion into those rights».

Disponibile all'indirizzo:https://www.cambridge.org/core/journals/cambridge-law-journal/article/public-figure-doctrine-and-the-right-to-privacy/FE9076D59920F8F95CC35AA2586180A0



§ 14. Roshaan Wasim, Corporate (non)disclosure of climate change information, in Columbia Law Review, n. 119/5         
Il contributo qui segnalato ha l’indubbio pregio di porre l’attenzione su un tema talvolta sottovalutato, quello delle conseguenze economiche e finanziarie del cambiamento climatico. Al fenomeno fisico, difatti, si legano rischi diretti e indiretti per le imprese (disagi nella filiera produttiva, aumento dei costi di compliance e litigation, impatto sulla reputazione aziendale), ma anche, talvolta, inedite business opportunities.        
L’Autrice si sofferma, allora, sulle nuove prospettive, non solo regolatorie, della disclosure aziendale: nel contesto attuale, infatti, per gli investitori c’è ancora il rischio di fondare le proprie scelte economiche su informazioni inadeguate o decettive relativamente alla vulnerabilità climatica degli asset societari. “Information about climate change is now a critical component of accurately assessing corporate risks and valutation” si legge in proposito. Ecco, allora, che assume una nuova centralità l’analisi della regolazione di settore – Exchange Act (1934) e Climate Change Disclosure Guidance (2010) – al fine di qualificare giuridicamente le informazioni sul cambiamento climatico, e di perimetrare conseguentemente l’obbligo di disclosure, tra “known events or uncertainties” e “forward-looking information”.   
Ad ogni modo, per prevenire i rischi legali della mancata disclosure, a fronte di un pubblico di investitori sempre più attento alla tematica ambientale, è necessario rimodulare i profili di compliance aziendali, ambito in cui l’Autrice offre alcuni interessanti spunti di riflessione. La trasparenza informativa può del resto rivelarsi, invece di un onere aggiuntivo, un punto di forza per l’impresa, incrementando l’efficienza del mercato e favorendo l’innovazione, anche nei metodi per contrastare a tutto tondo il cambiamento climatico.       

Disponibile all'indirizzo: https://columbialawreview.org/wp-content/uploads/2019/06/Wasim-CORPORATE_NONDISCLOSURE_OF_CLIMATE_CHANGE_INFORMATION.pdf



§ 13. Lina M. Khan, The separation of platforms and commerce, in Columbia Law Review, n. 119/4
L’accentramento di potere nei mercati digitali in capo a poche grandi imprese, ormai ‘gatekeepers’ dell’economia online, è un fenomeno al centro del dibattito in corso tra legislatori e regolatori. Le preoccupazioni si rivolgono, in particolare, a quei soggetti (Amazon, Facebook, Google) che operano in una doppia veste, da un lato platform holder, dall’altro venditori: una struttura che genera asimmetrie e dominanze, a svantaggio della contendibilità dei mercati.          
Per rompere questo assetto potenzialmente anticoncorrenziale, l’Autrice del saggio propone la soluzione della separazione strutturale, un rimedio al tempo stesso tradizionale e dirompente. Tradizionale perché ampiamente collaudato nei settori delle ferrovie, delle banche e delle reti di comunicazione, tutti ambiti che includevano «particular markets and services where a bottleneck facility served as infrastructure or a critical intermediary»; dirompente perché capace, forse più di altre soluzioni antitrust, comunque illustrate dall’Autrice, di arginare la corsa all’integrazione verticale nei mercati digitali.   
La separazione strutturale presenta costi e trade off, certo, come per esempio il rischio di prezzi maggiorati per il venir meno di alcune efficienze produttive, oppure il disincentivo all’innovazione ‘interna’. Tuttavia, sottolinea il lavoro, l’esorbitante potere conferito a talune imprese digitali dal loro doppio ruolo platform/commerce richiede necessariamente contrappesi che scoraggino le «winner-take-all dynamics».         
Si arriva così alla proposta di un general framework per la separazione delle digital platforms, che però non può prescindere da alcune fondamentali domande: come è definibile la ‘piattaforma’, e a quali tra queste dovrebbe applicarsi la separazione? quali sono i parametri per distinguere prodotti e servizi ‘separati’? come, infine, è possibile implementare la separazione, tra soluzioni statute, antitrust e rulemaking?      
Sul punto sembra comunque utopico un approccio monolitico. Nell’attuale gap regolatorio statunitense, conclude infatti l’Autrice, è necessaria una case-by-case analysis, in quanto «arriving at the proper set of interventions […] requires first knowing the full set of available tools».

Disponibile all’indirizzo: https://columbialawreview.org/content/the-separation-of-platforms-and-commerce/



§ 12. Matteo Godi, Beyond Nudging: Debiasing Consumers Through Mixed Framing, in The Yale Law Journal, Volume 128, Numero 7, 2019     
La razionalità delle scelte del consumatore e la dimensione informativa in cui si sostanzia la comunicazione commerciale rappresentano due temi molto dibattuti, sia nelle scienze economiche sia in quelle giuridiche; e, in questo secondo caso, la visuale è rappresentata dalla disciplina della consumer protection.  
Le scelte regolatorie sulla tutela del consumatore, in effetti, possono aprire agli occhi del pubblico strade differenti per il posizionamento comunicativo di un prodotto. Partendo da una ricostruzione delle due principali correnti teoriche statunitensi – e cioè, da un lato, l’approccio paternalistico di una disclosure votata esclusivamente al welfare, e dall’altro l’approccio libertario di un totale rifiuto del condizionamento regolatorio – l’Autore propone una third (and best) option basata sulla neutralità dell’informazione commerciale.  
La base del ragionamento è l’analisi del comportamento del consumatore, e in particolare la variazione delle scelte di consumo al variare delle connotazioni (“framing”), positive o negative, con cui la medesima informazione è veicolata (per esempio il labeling dei prodotti: “percent fat-free and percent lean statements”).
La soluzione regolatoria proposta, in considerazione dell’obiettivo di ridurre le asimmetrie informative e di massimizzare disclosure sul prodotto e autonomia del consumatore, è all’insegna della neutralità e della completezza informativa. La teoria del mixed framing, infatti, propone che le regole di etichettatura non impongano più una scelta tra framing positivo o negativo, ma che inglobino le due facce della medaglia. “Mixed framing does not package information in a way that influences consumer choices in a certain direction” afferma l’Autore; “rather, it promulgates information in the most neutral way possibile (by offering both sides of the coin)”. “In fact, mixed frames are the achetype of neutral information”.     
L’Autore non trascura neppure l’inquadramento costituzionale della tesi proposta: il mixed framing, seppur potenzialmente confliggente con il Primo Emendamento in tema di libertà di manifestazione del pensiero (anche commerciale), supera in realtà ogni censura proprio in virtù dell’accuratezza dell’informazione proposta, tale da prevenire l’inganno del consumatore.          
Quella che si propone è pertanto un’informazione commerciale esaustiva ed equidistante: i mixed frames risultano essere infatti “superior to the more volatile and misleading single frames because they foster affective diversity, respect consumer autonomy, and promote informed decision-making without nudging consumers toward either end of the spectrum”.

Disponibile all’indirizzo: https://www.yalelawjournal.org/note/beyond-nudging



§ 11. Emilio Girino, Class action in pillole: vademecum operativo, dirittobancario.it       
La recente riforma della class action, introducendo il titolo VIII-bis nel Libro Quarto del Codice di Procedura Civile, ha ridisegnato e potenziato lo strumento di tutela collettiva. Il contributo segnalato, forte di un preciso approccio schematico, si propone pertanto come una guida pratica al nuovo istituto, senza tuttavia rinunciare alla completezza espositiva e ad una certa organicità teorica.       
L’analisi della nuova class action evidenzia innanzitutto l’ampliamento della tutela in senso soggettivo e specifica i confini dei diritti tutelati (diritti individuali omogenei), elencando poi alcuni altri punti salienti, come la forma della domanda, il rito applicabile e i casi di inammissibilità.         
Un’ampia ricostruzione è dedicata, naturalmente, al procedimento: qui l’Autore mette in evidenza, oltre ai termini e agli aspetti tecnici, anche il profilo strutturale dell’istituto e le sue similitudini con le procedure concorsuali (nomina del giudice delegato e del rappresentante comune degli aderenti, adesione successiva alla sentenza di accoglimento della class action, progetto dei diritti individuali omogenei).         
Seguono alcune annotazioni sulle strade percorribili a esito del procedimento (adempimento spontaneo o esecuzione forzata collettiva) e sulla chiusura della procedura (totale soddisfacimento o incapienza).  
Da ultimo, l’Autore sottolinea le differenze tra la class action e l’azione inibitoria collettiva, “un procedimento alternativo […] volto non a risarcire un danno ma a far cessare o a prevenire il ripetersi o il reiterarsi di una condotta scorretta”.   

Disponibile all'indirizzo: http://www.dirittobancario.it/news/profili-processuali/class-action-pillole-vademecum-operativo



§ 10. Franco Passacantando, Nicola Bilotta, Economia digitale: i giganti del web e l’industria bancaria, affarinternazionali.it
L’industria bancaria tradizionale sta vivendo un periodo di significativi cambiamenti (digitali) e di riposizionamento competitivo, dovuto anche a una concorrenzialità esogena, una concorrenza portata cioè da soggetti che non sono banche o intermediari finanziari, ma che al tempo stesso offrono servizi di natura finanziaria.     
Partendo da questo presupposto, il contributo qui segnalato inquadra l’argomento sotto differenti profili. Innanzitutto, gli Autori analizzano il processo di digitalizzazione (ancora in itinere) dell’attività bancaria; sul punto, si sottolinea che l’offerta di servizi innovativi e l’efficientamento della gestione e dei costi strutturali si sta affidando anche alla collaborazione con i giganti del web (Amazon, Microsoft, Google) e i loro servizi cloud, motore della “trasformazione digitale dell’industria bancaria”.
Su altro versante, è questione ben nota anche la concorrenza proveniente da nuovi soggetti, come le società Fintech e le challenger banks, capaci di offrire al cliente soluzioni finanziarie semplici e innovative.      
Ma l’argomento principale, la tesi che il contributo intende davvero portare all’attenzione del lettore, è il peso via via maggiore che stanno assumendo i colossi digitali entro il perimetro dell’industria bancaria. Le tech companies, sempre più spesso, integrano nei loro ecosistemi alcuni servizi bancari, a fini sia di profilazione degli utenti (“il profilo finanziario del consumatore è un asset strategico”), sia di rafforzamento del rapporto col consumatore stesso (tali aziende diventano così un filtro, un intermediario “indispensabile per l’interazione tra gruppi economici”).   
A sostegno di questa posizione, gli Autori portano numerosi esempi di respiro internazionale: dal sistema di pagamento Alipay instaurato con successo da Alibaba in Cina, alla banca fondata dal gigante dell’e-commerce giapponese Rakuten, ai sistemi Amazon Pay e Payment di Facebook visti in Europa e negli Stati Uniti. Si tratta di servizi eterogenei, ma che tutti concorrono in differente misura a rafforzare la presenza delle tech companies nel settore bancario.  
Stando così le cose, quali i rischi e quali le opportunità?    
A questa domanda gli Autori offrono una risposta aperta e in divenire, sottolineando tuttavia che se le partnership con i colossi digitali e la presenza di questi ultimi nel mercato bancario può accelerare la crescita tecnologica del settore, d’altra parte l’accentramento e l’intreccio dei dati degli utenti potrebbero avere ripercussioni in ambito privacy: in particolare, tali fenomeni potrebbero portare a discriminazioni involontarie del consumatore (dettate dal funzionamento degli algoritmi) e all’esposizione dei dati stessi a rischi cibernetici.            

Disponibile all’indirizzo: https://www.affarinternazionali.it/2019/06/giganti-web-industria-bancaria/



§ 9. Gianluigi Ciacci, Il GDPR compie 1 anno, perché il bilancio è (quasi) un successo, Key4Biz.it
Nel contesto di un’economia digitale che vede nel possesso e nella conoscenza dei dati due noti fattori abilitanti, il cosiddetto GDPR ha senz’altro favorito una “domanda di privacy” senza precedenti da parte dei soggetti interessati.   
L’articolo qui segnalato mira dunque a fornire una chiave di lettura, anche prospettica, del perimetro applicativo del nuovo Regolamento. L’implementazione delle novità regolatorie, anche se prevalentemente legata al timore delle sanzioni e alla figura del DPO in funzione di panacea, sta infatti gradualmente imponendo la privacy come elemento cardine dei rapporti commerciali.                
A fronte della crescita di consapevolezza sul ruolo dei dati, la cultura della privacy non sembra però essersi ancora pienamente sviluppata.
Il vero cambio di passo, su questo punto, dovrà allora passare necessariamente per un’adeguata formazione dei soggetti coinvolti nel trattamento dei dati: l’attenzione alla tutela di questo valore fondamentale, peraltro, trova conforto nei numerosi obblighi di formazione previsti dal Regolamento, e ricordati dall’Autore.     
In conclusione, pertanto, sotto il profilo programmatico il vero obiettivo sarà “valorizzare sempre più la formazione come momento per aumentare la diffusione di una cultura del dato, della sua importanza, della necessità della sua protezione”. Il tutto, perché no, anche grazie a un (ancor) più incisivo ruolo del Garante Privacy.

Disponibile all'indirizzo: https://www.key4biz.it/il-gdpr-compie-1-anno-perche-il-bilancio-e-quasi-un-successo/259529/



§ 8. Il 5G tra sicurezza e privacy. Intervista a Maurizio Dècina, Key4Biz.it                      
La sicurezza del 5G, punto cardine attorno al quale ruota l’intervista qui segnalata, non può permettersi alcun tipo di falla, perché in gioco c’è l’affidabilità di applicazioni e servizi intelligenti e a rischio, tra i quali la guida autonoma, la realtà virtuale e la medicina a distanza.         
L’intervista spazia perciò dalle caratteristiche del nuovo ecosistema di rete – come la virtualizzazione delle infrastrutture, che apre allo slicing e alla personalizzazione dei servizi/dati che viaggiano in rete – all’approccio regolatorio necessario a garantirne il buon funzionamento; alla flessibilità dei servizi deve cioè corrispondere una “flexible security”, tale da consentire un miglioramento effettivo della qualità dei servizi, senza però rinunciare alla sicurezza o alla privacy. “Il grande numero di stakeholders coinvolti nei servizi verticali” si legge infatti in chiusura, “richiede grande rispetto per la privacy degli utenti e la tutela di dati sensibili.
Se la next-gen mobile network sembra essere stata disegnata avendo in mente non il solo settore delle comunicazioni, ma l’intera industria e i servizi, l’approccio regolatorio dovrà quindi obbligatoriamente basarsi su onnicomprensività e flessibilità delle soluzioni.   
           
Disponibile all’indirizzo: https://www.key4biz.it/il-5g-tra-sicurezza-e-privacy-intervista-a-m-decina-occorrono-politiche-e-regole-adeguate-ma-e-tutto-nelle-nostre-mani



§ 7. Maria Teresa Paracampo, Dalle regulatory sandboxes al network dei facilitatori di innovazione tra decentramento sperimentale e condivisione europea, in Rivista di Diritto Bancario, dirittobancario.it, 11, 2019         
La cosiddetta “FinTech” rappresenta ormai – anche al netto delle incertezze definitorie – non un vago orizzonte, ma una dimensione concreta, cui si collega la necessità di una regolazione chiara ed armonizzata. Una regolazione che, per assecondare la natura “cross border” del fenomeno, dovrebbe pertanto vantare un respiro (quantomeno) euro-unitario. E’ questa la tesi di fondo del contributo, che evidenzia il “disagio” che ha invece finora caratterizzato i regolatori “nel processo di comprensione e regolazione di un fenomeno innovativo”, determinando un “effetto patchwork” delle soluzioni normative.      
Così delineato il contesto, degna di nota è la ricostruzione che l’Autrice dedica alle best practices europee, contenute in particolare nel FinTech Action Plan della Commissione UE e in un recente Report delle ESA. In tale ecosistema, il ruolo principale è giocato dalle regulatory sandboxes e dagli innovation hubs, e il baricentro sembra dividersi tra sostegno all’innovazione e rispetto del level playing field.  
Se l’obiettivo è la creazione di un mercato unico FinTech, tuttavia, stona la dimensione nazionale cui si sta circoscrivendo il discorso europeo relativo al “raggio d’azione dei facilitatori di innovazione”.
Infatti, nota l’Autrice, “la personalizzazione nazionale di ciascun facilitatore si è subito palesata come il limite operativo principale sia per i nuovi adepti sia per il conseguimento dell’auspicato polo europeo tecnologico”. E, proprio parlando di quest’ultimo, gli sforzi euro-unitari sembrano avere, allo stato, il sapore di un’occasione persa, in quanto incapaci di creare quella vera e propria regulatory sandbox europea necessaria per confrontarsi – forti di una dimensione continentale unitaria e compatta – con le sfide proposte dallo scenario internazionale FinTech.

Disponibile all'indirizzo: http://www.dirittobancario.it/rivista/finanza/mercati-finanziari-e-regole-di-sistema/dalle-regulatory-sandboxes-al-network-dei-facilitatori-di-innovazione



§ 6. R. Barton, M. Ishikawa, K. Quiring, B. Theofilou, To Affinity and Beyond: from Me to We, the rise of the purpose-led brand, Accenture Strategy             
La tecnologia e i media, conferendo un inedito potere alle persone, stanno cambiando ogni aspetto della vita quotidiana, incluse le scelte di acquisto. Se l’attività d’impresa è anzitutto dialogo two-ways tra azienda e consumatori, ecco allora che il “purpose”, inteso come posizionamento valoriale dell’azienda stessa, diventa il fulcro della (ri)costruzione del brand.  
È su queste premesse che poggia il recente Report di Accenture Strategy, con l’obiettivo di suggerire alle imprese alcune modalità con cui cementare durature relazioni con i clienti.    
“[Customers are] now assessing what a brand says. What it does. What it stands for.” Si chiede pertanto al brand di posizionarsi non più e non solo sul mercato, ma nella società.
Il 62% dei consumatori, si legge infatti nel Report, si aspetta che il brand prenda posizione su temi socialmente rilevanti, quali la sostenibilità ambientale o i diritti dei lavoratori, estendendosi su una dimensione più ampia di quella relativa al solo prodotto o servizio offerto.       
Questo “common purpose” rappresenta quindi il nuovo orizzonte sociale su cui l’impresa è oggi chiamata a costruire se stessa: prezzo e qualità del prodotto non sorprendono più, sono caratteristiche ormai date per assodate; l’attenzione si sposta allora sulla creazione di un ecosistema di valori rilevanti in cui il consumatore possa riconoscersi.             
Per farlo, Accenture offre tre suggerimenti strategico-operativi: BE HUMAN (capacità di creare una “emotional connection” tra azienda e consumatore); BE CLEAR AND AUTHENTIC (“standing for everything means standing for nothing”); BE CREATIVE (“rethinking engagement models”).

Il Report è disponibile all'indirizzo: https://www.accenture.com/_acnmedia/Thought-Leadership-Assets/PDF/Accenture-CompetitiveAgility-GCPR-POV.pdf#zoom=50



§ 5. Antonio Sassano (Fondazione Bordoni) '5G e Net Neutrality. La necessità di un confronto sul futuro degli algoritmi', Key4Biz.it
Con l'avvento della quinta generazione mobile, l'evoluzione regolatoria e tecnologica del principio di neutralità della rete sembra assumere contorni nuovi e sfaccettati. Il 5G non è infatti un semplice upgrade della rete, ma una rivoluzione che trasforma internet in "una rete di reti". La virtualizzazione (il c.d. network slicing), cardine dell'intero ecosistema 5G, è infatti in grado di rimodulare le porzioni di rete in funzione degli specifici servizi ed utilizzi, con un ruolo di primo piano affidato agli algoritmi di orchestrazione.
Ma se cambia lo scenario tecnologico, allora anche il perimetro regolatorio deve aggiornarsi. Ed è per questo che il Berec, in prima linea nella ridefinizione della Net Neutrality, dovrà abbracciare presto l'idea che "le reti 5G saranno certamente multi dominio e non saranno fette di una rete esistente ma sottoreti che gli algoritmi di orchestrazione definiranno in modo autonomo."
La speranza è che, anche su temi come lo sharing delle infrastrutture in fibra ottica e il ruolo dell'operatore 'wholesale only', la regolazione si faccia trovare pronta sulla linea di partenza del 5G, senza doversi lanciare successivamente in un'estenuante rincorsa al fenomeno tecnologico. 
  
Disponibile all'indirizzo: https://www.key4biz.it/antonio-sassano-fondazione-bordoni-5g-e-net-neutrality-la-necessita-di-un-confronto-sul-futuro-degli-algoritmi/251708/



§ 4. Howard Yu, How Apple's Event Reveals The Strategic Flaw In Its Thinking, Forbes.com
Deciding what not to do is as important as deciding what to do”: è con questa famosa citazione di Steve Jobs che l’Autore dà avvio a una riflessione su business strategies, innovazione e data analytics nel contesto dell’economia digitale.              
Sullo sfondo del keynote di Apple di fine marzo, l’articolo istituisce infatti un confronto tra innovazioni sustaining (incrementali) e market-creating (capaci di aprire nuovi mercati), al fine di lanciare un monito alle imprese: se l’innovazione disruptive non è sempre dietro l’angolo, nel contesto odierno i driver realmente imprescindibili sono i canali di distribuzione e i dati. Conoscere il consumatore, insomma, sembra un passo necessario per non essere relegati a "nuovi entranti" di un mercato nel frattempo creato da qualcun altro.

Disponibile all'indirizzo: https://www.forbes.com/sites/howardhyu/2019/03/25/how-apples-event-reveals-the-strategic-flaw-in-its-thinking/#590dafc41b53



§ 3. Emiliano Paglia, Alla riscoperta delle attività di vigilanza dell’AGCOM, Key4Biz.it
Il contributo analizza il ruolo di Agcom, con particolare riferimento alla sua funzione di vigilanza, forse meno nota rispetto a quella regolatoria. Con un’interessante similitudine, l’Autore descrive “le due attività dell’Agcom […] come le due forme di energia di un pendolo”. Esempi di questa relazione sinergica sono offerti nell’ambito delle telecomunicazioni: i provvedimenti dell'Authority relativi all’analisi dei mercati, agli obblighi di trasparenza, ai servizi di accesso disaggregato, ai servizi WLR e Bitstream e al retail, evidenziano come la vigilanza appartenga alla sfera della soluzione (il “come”), mentre la regolazione a quella del problema (il “cosa”). Queste due anime, pertanto, finiscono col rappresentare “diverse configurazioni morfologiche di una stessa energia”.

Disponibile all'indirizzo: https://www.key4biz.it/alla-riscoperta-delle-attivita-di-vigilanza-dellagcom/250779/



§ 2. Gian Luca Greco, Valute virtuali e valute complementari, tra sviluppo tecnologico e incertezze regolamentari, Rivista di Diritto Bancario, dirittobancario.it, 5, 2019 
Le declinazioni tecnologiche dell’offerta dei servizi finanziari, comunemente note come Fintech, stanno creando una spaccatura tra mercati finanziari regolamentati e non regolamentati. In tale contesto, un ruolo di primo piano è attribuito alle valute virtuali e (in misura meno dirompente) alle valute complementari.   
Nel tracciare i contorni di questo fenomeno digitale, l’Autore si sofferma inizialmente su una breve ricostruzione storica del concetto di “moneta” che giunge fino a quella elettronica: un elemento che interessa, peraltro, la delicata prospettiva della “fiducia del sistema nella moneta che l’emittente è in grado di creare e mettere in circolazione”. Ma se la moneta elettronica è comunque un mezzo di pagamento emesso da una banca o da un altro istituto finanziario dotato di apposita autorizzazione, lo stesso non vale per le valute virtuali: esse, anzi, spiccano per deregolazione e convenzionalità, emesse come sono da “soggetti privati, sostanzialmente anonimi, per cui l’affidabilità della valuta fa leva sulla tecnologia associata al funzionamento del network”. Nonostante l’incertezza definitoria e normativa che le contraddistingue, e nonostante le mire speculative cui sono talvolta finalizzate, le valute virtuali risultano comunque oggetto di attenzione anche favorevole da parte delle politiche europee. Il saggio ricorda, in particolare, alcune Risoluzioni del Parlamento europeo che ne hanno messo in luce “l’abbassamento dei costi di transazione” e i “benefici in termini di inclusione finanziaria”.       
Le preoccupazioni legate ai rischi delle valute virtuali hanno ad ogni modo spinto la Commissione UE ad adottare la V direttiva AML volta ad “estendere parti della disciplina comunitaria in materia di antiriciclaggio” alle suddette valute, per contemperare le contrapposte esigenze di monitoraggio del fenomeno e di sviluppo tecnologico. La stella polare resta, comunque, la tutela del mercato, motivo per cui l’Autore riflette sulla potenziale inclusione delle valute virtuali nelle categorie degli strumenti finanziari e dei prodotti finanziari.       

Disponibile all’indirizzo: http://www.dirittobancario.it/rivista/finanza/mercati-finanziari-e-regole-di-sistema/valute-virtuali-e-valute-complementari-tra-sviluppo-tecnologico-e-incerte



§ 1. Bezos Unbound: Exclusive Interview With The Amazon Founder On What He Plans To Conquer Next, Forbes.com
Jeff Bezos, fondatore di Amazon e businessman più ricco del mondo, si racconta a Forbes. Il proprietario del Washington Post glissa sulle provocazioni di Trump e su Cambridge Analytica (“i dati non sono il business di Amazon, solo uno degli strumenti a disposizione”), ma spazia a tutto campo sui motivi del successo della sua piattaforma. Dalla visione consumer centrica al modello strategico-decisionale “originality, scale, return on investments”, dal ruolo di “terzo incomodo” nella guerra pubblicitaria tra Google e Facebook ai negozi Amazon Go e ai servizi Cloud in crescita, Bezos parla di Amazon come fosse una start-up, perché – dice lui – il mercato digitale è ancora solo all’inizio.

Disponibile all'indirizzo: https://www.forbes.com/sites/randalllane/2018/08/30/bezos-unbound-exclusive-interview-with-the-amazon-founder-on-what-he-plans-to-conquer-next/

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