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Sea Watch 4: il TAR Sicilia coinvolge la Corte di Giustizia Ue sui poteri di controllo dello Stato di approdo


08/01/2021

Delineare con maggior chiarezza l’estensione dei poteri di controllo dello Stato di approdo sulla nave straniera: sembra essere questo, in estrema sintesi, il fulcro del rinvio pregiudiziale sollevato dal TAR Sicilia, con una recente Ordinanza del 23 dicembre 2020. [1]       

Come noto, nel settembre dello scorso anno la Capitaneria di Porto di Palermo ha disposto il fermo dell’imbarcazione Sea Watch 4, battente bandiera tedesca, provvedimento avverso il quale l’armatore della Sea Watch ha proposto ricorso.

Il fermo era stato disposto sulla base di un’ispezione Port State Control (PSC), nell’ambito della quale erano state riscontrate numerose carenze tecniche ed operative “con riferimento alle norme contenute nelle convenzioni internazionali MARPOL, SOLAS, MLC e STCW”. Inoltre – ed è questo il dato che più rileva, nelle questioni pregiudiziali, in relazione all’estensione dei poteri di controllo dello Stato di approdo e alla verifica in concreto delle certificazioni possedute della nave ispezionata – era stato riscontrato che la Sea Watch 4 possedesse il certificato di classificazione come nave “general cargo/cargo multipurpose”, ma che invece svolgesse sistematicamente attività cd. di search and rescue, cioè di ricerca e salvataggio di persone, anche nel Mar Mediterraneo Centrale.



Il Tribunale Amministrativo, nell'esaminare il ricorso avverso il provvedimento di fermo, ha allora ritenuto di dover portare all’attenzione della Corte di Giustizia UE una questione pregiudiziale di interpretazione ai sensi dell’art. 267 TFUE.

Tale questione concerne non soltanto l’ambito di applicazione della direttiva che regola la materia (Direttiva 2009/16/CE) [2], ma anche l’individuazione dell’ampiezza dei poteri di controllo dello Stato di approdo in sede di PSC e dei presupposti che giustificano un’ispezione supplementare nei confronti delle navi che fanno scalo nei porti europei, fino a domandarsi se lo Stato di approdo abbia il potere “di verificare il possesso delle certificazioni e dei requisiti e/o prescrizioni sulla base dell’attività alla quale la nave è destinata in concreto”, e non soltanto il possesso dei requisiti relativi all’attività dichiarata.     



1. Individuazione dell’ampiezza dei poteri di controllo dello Stato di approdo in sede di PSC. Come anticipato, è dunque presente una contrapposizione tra l’attività dichiarata della nave e certificata dall’ente tedesco, da un lato, e l’attività sistematicamente svolta dalla nave in concreto e rilevata a seguito di ispezione dall’autorità italiana, dall’altro.

Una contrapposizione, questa, da cui discendono i rilievi circa i rispettivi poteri e competenze, previsti dalla disciplina euro-unitaria, in favore rispettivamente dello Stato di bandiera e dello Stato di approdo. In altre parole, uno dei temi di fondo oggetto della questione pregiudiziale, che si è detto riguardare l’estensione dei poteri dello Stato di approdo, è il seguente: può tale Stato verificare le attività svolte in concreto dalla nave ispezionata, e di conseguenza richiedere le certificazioni previste per tali attività, anche se queste risultano differenti dalle attività dichiarate? E più in particolare, se la nave è classificata per un’attività (cargo), ma in concreto ne svolge sistematicamente un’altra (search and rescue), può un’ispezione PSC ingerirsi nella verifica del possesso delle certificazioni in materia di sicurezza, prevenzione dell’inquinamento e condizioni di vita e di lavoro a bordo, anche nel caso in cui, appunto, l’attività svolta in concreto sia quella del search e rescue

Sul punto l’ordinanza di rinvio pregiudiziale del TAR, dopo aver offerto un inquadramento della citata direttiva, che rappresenta un importante pilastro dell’azione europea in materia di sicurezza marittima (contenendo appunto la disciplina del Port State Control [3]), svolge alcune riflessioni critiche tanto sul ruolo giocato nel sistema della sicurezza marittima dal potere di ispezione PSC, quanto sull’equilibrio di poteri esistenti tra Stato di bandiera (controllo primario) e Stato di bandiera (controllo secondario, “di chiusura del sistema”).  

Si rileva infatti che l’ispezione PSC sulle navi straniere, finalizzata a garantire che esse non si trovino “in condizioni cd. substandard rispetto alle Convenzioni Internazionali che regolano la sicurezza della navigazione”, rappresenta non un “potere di controllo […] meramente formale”, bensì un controllo sostanziale. Esso, tuttavia, sembra doversi limitare “alla verifica di carattere sostanziale dell’effettiva sussistenza nella nave dei requisiti in relazione ai quali le sono state rilasciate le relative certificazioni”. In altre parole, non un quick check, ma neanche un controllo discrezionale: lo Stato di approdo, in tal senso, ha il potere di effettuare un controllo della sussistenza dei requisiti, ma soltanto di quei requisiti in relazione ai quali sia presente una certificazione.         

Il TAR avverte che tale limitazione potrebbe “lasciare un vuoto normativo”, consistente in un “potenziale abuso dei diritti insiti nella classificazione della nave e nelle conseguenti relative certificazioni, atteso che una nave potrebbe eludere gli specifici requisiti richiesti sulla base della natura dell’attività in concreto espletata “nascondendosi” dietro la formale classificazione della stessa”. Tuttavia, nel caso che qui interessa, anche qualora si volesse considerare più esteso il potere di ispezione PSC, né le convenzioni internazionali, né il diritto euro-unitario sembrerebbero indicare dei “requisiti puntuali per le navi di proprietà privata che svolgano in modo sistematico attività cd. SAR di salvataggio delle persone in pericolo in mare”.

2. Individuazione dei presupposti per disporre un’ispezione supplementare più dettagliata ai sensi degli artt. 11 della Direttiva 2009/16/CE e 8 del D.Lgs. n. 53/2011. Ancora sui rapporti tra Stato di bandiera e Stato di approdo, il ricorso sottolineava, in sostanza, che l’amministrazione italiana avesse “travalicato i propri poteri di vigilanza/controllo in sede di PSC quale Stato di approdo, sostituendo con le proprie determinazioni/valutazioni quanto statuito e certificato dallo Stato di bandiera”, rilevando la carenza dei presupposti, ai sensi della direttiva 2009, per l’attivazione di un’ispezione PSC dettagliata.

Sul punto la domanda pregiudiziale del TAR porta all’attenzione della Corte europea la valutazione sulla rilevanza, ai fini dell’ispezione supplementare più dettagliata, del fatto che la nave trasportasse “un numero di persone di gran lunga superiore a quello riportato nel certificato degli equipaggiamenti di sicurezza, sebbene all’esito di attività cd. SAR” e del fatto (speculare) che la nave possedesse “un certificato degli equipaggiamenti di sicurezza riferito a un numero di persone di gran lunga inferiore rispetto a quelle effettivamente trasportate”. In altre parole, ciò che l’ordinanza chiede è se tali circostanze possano rappresentare quel fattore di priorità assoluta o quel fattore imprevisto che dovrebbero fare da presupposto a un’ispezione supplementare.        

Non mancano, nell’ordinanza, alcune interessanti considerazioni in merito. Secondo il TAR, infatti, se da un lato “l’eventuale inadeguatezza delle certificazioni di sicurezza rilasciate da parte dello stato di bandiera in riferimento al numero delle persone effettivamente a bordo in sé e per sé considerata non è idoneo fattore imprevisto”, dall’altro, “il trasporto di un numero di persone di gran lunga superiore a quello riportato nel certificato degli equipaggiamenti di sicurezza, all’esito di attività cd. SAR, potrebbe, invece, rientrare nel fattore imprevisto […] di cui alla fattispecie specifica delle “navi che sono state gestite in modo da costituire un pericolo per le persone, le cose o l’ambiente””.

Ciò in quanto, a prescindere dalle certificazioni possedute dalla nave, nelle operazioni di salvataggio è il Comandante a valutare se e in che limiti ‘di capienza’ il salvataggio stesso possa essere effettuato in sicurezza, e questa sua scelta può essere valutata in sede di ispezione PSC.

3. Definizione dell’ambito di applicazione della direttiva 2009/16/CE ai sensi dell’art. 3 della direttiva e dell’art. 3 del D.Lgs. n. 53/2011 di recepimento. La rilevata contrapposizione tra classificazione della nave (nel caso della SW4: cargo) e attività svolta in concreto (search and rescue) gioca un ruolo importante anche nella valutazione della questione pregiudiziale, di carattere generale, circa l’applicabilità della direttiva 2009 alle imbarcazioni che svolgano attività non commerciali.

Sul punto la normativa europea non sembra brillare per chiarezza, con l’art. 3 della direttiva che da un lato parrebbe escludere dall’ambito di applicazione del PSC una nave che, pur essendo classificata come cargo (dunque “inerente ad attività commerciale”), svolga in concreto operazioni “di carattere non commerciale”; tuttavia, dall’altro – avendo riguardo al par. 4 del medesimo articolo – la direttiva non escluderebbe “la nave classificata formalmente come cargo, non di proprietà dello Stato, che svolga, in concreto, attività non commerciale”. A ciò si aggiunge, peraltro, una normativa di recepimento nazionale che espressamente “individua l’ambito di applicazione del PSC limitandolo alle sole navi utilizzate a fini commerciali”: una normativa nazionale sulla quale il TAR si interroga, sotto questo profilo, circa la compatibilità con la direttiva.

Nonostante i dubbi appena riportati, l’ordinanza sembra comunque propendere per l’esclusione delle navi che non svolgono in concreto attività di natura commerciale dall’ambito di applicazione della direttiva, e dunque dalla possibilità per lo Stato di approdo di effettuare un’ispezione PSC.

4. Sul potere di verificare il possesso di certificazioni sulla base dell’attività concreta. L’ultima questione pregiudiziale si articola in una serie di sotto-domande che sorgono dall’eventuale affermazione del potere, in capo allo Stato di approdo, “di verificare il possesso delle certificazioni e dei requisiti e/o prescrizioni sulla base dell’attività alla quale la nave è destinata in concreto”. Ci si chiede, in sostanza, quali siano i limiti e la cornice giuridica entro i quali tale potere, se sussistente, potrebbe estrinsecarsi. Ad es., se sia facoltà dello Stato di approdo richiedere il possesso di certificazioni relative all’attività concretamente svolta dalla nave soltanto in presenza di un quadro giuridico internazionale od euro-unitario chiaro sull’attività di search and rescue o, in caso negativo, in presenza di una normativa di carattere nazionale, o ancora, in assenza di una normativa nazionale, se possa essere l’amministrazione dello Stato di approdo a indicare, case by case, i requisiti di sicurezza.   

Le note conclusive della questione pregiudiziale sembrano dunque poggiare sul piano della carenza di una disciplina specifica per la classificazione del search and rescue. Una lacuna che “dovrebbe implicare che le navi private aventi quale specifica missione l’attività cd. SAR […] sarebbero prive di una specifica classificazione nella normativa internazionale e/o eurounitaria, in grado di delinearne gli standards di sicurezza della navigazione e di tutela dell’ambiente in modo preciso e puntuale”. Perciò “si dovrebbe escludere che l’utilizzo di una diversa classificazione (nel caso che ci occupa come nave cargo) possa costituire strumento elusivo della disciplina fin qui richiamata, giacché gli unici indici normativi, seppure nei limiti come sopra delineati, militano per la chiara esclusione dell’attività cd. SAR dall’applicazione delle norme internazionali (recepite dagli Stati Membri e dall’Unione Europa) sulla sicurezza nella navigazione e sulla tutela dell’ambiente marino, non emergendo dal tenore della suddetta normativa una distinzione tra attività cd. SAR occasionale e attività cd. SAR istituzionale e continuativa”. E, ancora “specificatamente la lacuna normativa in sede internazionale ed eurounitaria non consentirebbe di potere rinvenire nella normativa dello Stato di approdo un valido parametro di riferimento ai fini della richiesta del possesso di certificazioni e requisiti e/o prescrizioni ulteriori e diverse rispetto a quelli discendenti dalla specifica classificazione dello Stato di bandiera.”

© Graziadei Studio Legale

[1] N. 02974/2020 Reg. Prov. Coll. N. 01596/2020
[2] Direttiva 2009/16/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 23 aprile 2009 relativa al controllo da parte dello Stato di approdo      
[3] La disciplina del Port State Control prevede “un regime di ispezioni giuridicamente vincolante”. Tale disciplina, nel 2018, è stata oggetto di un fitness check della Commissione UE: “la Commissione ha concluso una valutazione ex post della direttiva 2009/16/CE nell'ambito del Maritime Fitness Check. Il risultato ha confermato che la Direttiva PSC è pertinente, efficace ed efficiente e apporta un valore aggiunto a livello dell'UE, svolgendo un ruolo chiave nell'applicazione delle norme dell'Organizzazione Marittima Internazionale (IMO) e degli standard dell'UE, contribuendo così a un elevato livello di sicurezza, protezione e sostenibilità del trasporto marittimo.

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